Il tema conduttore di questo ciclo di acqueforti è il
rapporto, multiforme e a volte complesso, tra i simboli e i Santi e prende spunto dalla tradizione iconografica tra Rinascimento e Barocco, in
cui i Santi e le loro storie sono una
parte integrante. I Santi vengono perlopiù ritatti come candide e innocenti giovanette e come
adulti barbuti e non per tutti era ed è facile oggi riconoscerne l’identità.
Spesso l’unico modo per identificarli sono i loro simboli o quelli che
vengono chiamati più propriamente gli attibuti iconografici che sempre li
accompagnano, cioè gli oggetti che
tengono in mano o che stanno al loro fianco, gli animali collocati vicino o i capi di abbigliamento.
L’attributo per eccellenza che contraddistingue i Santi-martiri è la foglia di palma,
simbolo di sacrificio ma anche di trionfo sul Male e segno della loro Redenzione.
Questi attributi traggono la loro origine dalle agiografie dei Santi e dagli Atti e Passioni dei martiri in cui
sono raccontati, romanzandoli spesso con toni granguignoleschi, il loro sacrificio e tutte le efferate torture
e sevizie che l’hanno preceduto. Tutta
questa tradizione verrà raccolta e rielaborata nel 1265 da Jacopo da Varagine,
frate domenicano e vescovo di Genova, nel libro chiamato la Legenda
aurea, molto diffuso nel Medioevo tanto da essere il libro più letto dopo la Bibbia. Questi scritti costituiscono la fonte e l’ispirazione di
tutta la tradizione iconografica europea che elabora, sull’onda di una dilagante devozione, un codice
identificativo per la rappresentazione dei Santi,
che avrà valore dal Medioevo alla
modernità. Questo codice ha lo scopo di consentire la riconoscibilità dei personaggi sacri anche ai meno colti degli osservatori
perché, come scriveva Gregorio Magno, “la pittura
serve agli analfabeti come la scrittura per chi sa leggere".
Con
la rappresentazione delle vicende e del martirio dei Santi è la
stessa storia dell'Arte occidentale a cambiare. Nella
iconografia del loro sacrificio si impone la dinamica
dei corpi e delle emozioni e si mette in scena il dramma dell'orrore e della pietà, a cui fa da sfondo un paesaggio sempre
più naturalistico: l'Arte europea abbandona definitivamente
la ieratica staticità e i lucenti sfondi dorati della tradizione
bizantina.
Anche la rappresentazione dei loro attributi (la
chiave, la torre, la ruota, l'ancora, la croce, il cane, l'agnello...)
contribuisce a calare i personaggi sacri nella
quotidianità immortalando per sempre il loro rapporto e avvicinandoli alla vita del devoto e rendendoli identificabili da
tutti. Così, per esempio, l’avvenente ed
elusiva Fillide Melandroni, la prostituta nota in tutta Roma per la sua
straordinaria bellezza, in Caravaggio diventa Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto,
per via del simbolo del suo martirio, quella ruota dentata strumento della sua tortura
che, per miracolo, si spezzerà salvandola. A seguito di questo fatto
prodigioso, la santa verrà decapitata con la spada, altro suo attributo, che infatti si trova nelle sue mani mentre ai suoi piedi si trova l’immancabile
foglia di palma.
In questi incisioni il punto focale di questo rapporto si sposta inevitabilmente dal Santo al suo simbolo, riconoscendo
a quest’ultimo, grazie alla sua pregnanza metaforica e alle doti di
fascinazione, la potenza di racchiudere in sé, tra i tanti rimandi
possibili, anche quello all'immagine sacra, a cui per tradizione è
associato. Per queste ragioni il simbolo in sé stesso, nelle sue
trasformazioni ed evoluzioni, finisce con l’acquistare la naturale
facoltà di
evocare, richiamare o semplicemente alludere al Santo a cui è riferito,
anche persino in sua assenza. In questi lavori è come se il simbolo,
pur rimanendo profondamente legato all’identità santa, acquistasse una
propria vita autonoma e indipendente e si ponesse al centro di un nuova
e moderna narrazione, visionaria e surreale, che è nel contempo anche
epica, perchè i Santi con i loro simboli sono gli Eroi di una Religione
ma anche di una racconto iconografico millenario.
Note dell'autore
Santa Caterina, giovane donna di
rara bellezza, era un’orfana di origine
principesca, dedita allo studio della filosofia e delle arti liberali. Dopo la
morte del padre, la giovane si convertì al Cristianesimo ed ebbe in sogno la visione della Madonna con il Bambino che le infilava
l'anello al dito, facendola "sponsa
Christi" nel Matrimonio
mistico spesso rappresentato in pittura (Guercino e Parmigianino). Nel 305 l’Imperatore Massimino, per la sua
fede pura ed irremovibile, la condannò al supplizio della ruota ma un fulmine
la salvò. Quando le fu tagliata la testa, dal collo mozzato non sgorgò sangue
bensì latte, simbolo della sua purezza. Elegante, colta, martire e
vergine, è una delle Sante più amate
nell’Europa cristiana.
Nell’incisione lo strumento della sua tortura non si trova al suo fianco (come
vuole la tradizione) ma in primo piano ai piedi della santa, collegata
intimamente al suo simbolo, che costituisce l’elemento fondativo della figura stessa. Replicando se stessa verso l’alto, muta in
un’altra struttura, come a proteggere simbioticamente quella palma che le
cresce vicino. L’immagine termina con un
libro a indicare la sua saggezza, ma anche l’idea che i Martiri sono i testimoni, i veri interpreti e custodi del Verbo (vedi
anche San Simone e San Bartolomeo),
mentre il volto sfaccettato racchiuso nel grosso volume rimanda alla triplice
natura di Santa, di Martire e di donna.
Quando il futuro Sisto II fu eletto vescovo di
Roma nel 257 d.C, affidò a San Lorenzo il compito di arcidiacono,
cioè di responsabile delle attività caritative nella diocesi rivolte agli orfani, vedove e poveri. Un anno
dopo, in seguito alla persecuzione dell’ imperatore Valeriano che colpiva i
membri della gerarchia ecclesiastica, lo
stesso Papa fu martirizzato insieme a
quattro dei suoi diaconi; quattro giorni dopo, il 10 agosto, fu la volta di
Lorenzo che fu bruciato vivo su una graticola posta sui carboni ardenti, che
diventa insieme alla tradizionale veste
da diacono (dalmatica) suo attributo principale.
Nall' incisione lo strumento dela sua morte si converte in una complessa struttura reticolare che fa
da basamento e sostegno ad una specie di ecumenico abbraccio dalle linee classiche di
un vuoto anfiteatro, spesso realmente luogo di supplizio dei Cristiani.
In alcune acqueforti, il simbolo sembra
assumere forme ipertrofiche tali da occupare quasi totalmente lo spazio
prospettico: è il caso di Santa Margherita d’Antiochia (attuale Turchia), che subì il martirio all’eta di quindici anni, nel 290 d.C. La martire, in nome della fede a cui si era consacrata, si rifiutò al
Prefetto romano che per questo la denunziò
come cristiana. In carcere, nella notte
che precede la sua esecuzione, viene visitata nella cella dal Diavolo nelle
forme di drago che la inghiottì. Margherita armata della sola croce squarcia il
ventre del mostro e sopravvive al letale confronto. Da questo antico rito di
iniziazione, un passaggio verso un livello di coscienza superiore, Margherita da martire ne uscirà Santa e il drago diventerà il suo attibuto principale che sempre
l’accompagnerà.
Nella incisione la Santa non è colta, come vuole la tradizione (Raffaello e
Giulio Romano), nel momento del trionfo sul Male ma nel pieno della lotta con
un mostro che, però, non ha nulla di orrifico ma sembra essere un oggetto di
scena (la chiavetta), destinato a svolgere comunque un ruolo già preassegnato e funzionale alla drammatica rappresentazione.
Anche nella incisione di Santa Barbara,
il suo simbolo, una la torre cilindrica,
domina la scena. Nella torre, lei bella, vergine e votata solo a Cristo, l’aveva
rinchiusa il padre Dioscoro, fanatico pagano, che la denunciò al governatore romano per sua
fede indomabile. Dopo inenarrabili sevizie e patimenti, è lo stesso genitore a
sferrare il colpo di spada che la decapiterà. Appena la testa di Barbara cade
in terra, un fulmine seguito da un enorme boato, incenerisce padre scellerato.
Per questo è considerata la protettrice degli artiglieri, dei vigili del fuoco
e dei minatori ed è per questo che i depositi di munizioni portano
il suo nome.
Nella incisione, la Santa sembra
essere nel mezzo di un lotta cruenta con la torre nella quale è stata segregata dal genitore. Armata
di quella stessa spada con cui sarà
giustiziata come cristiana, si apre un varco tra le due parti che stanno per
cedere alla sua spinta poderosa. Ma la sua testa è essa stessa una torre a
ricordare che, anche se Barbara riuscirà nel suo intento, dovrà fare i conti
con un nemico ‘interno’, altrettanto solido
e resistente quanto la sua prigione.
Sant’Andrea, tra i primi seguaci di
Gesù e apostolo, come “pescatore di
uomini” annunciò
il Vangelo in Siria, in Asia minore e in Grecia. E qui a, a Patrasso, venne martirizzato intorno al 60 d.C,
legato alla croce che porta il suo nome (una croce a forma di X) , perchè non
avrebbe mai osato eguagliare Cristo nel martirio. Nella incisione la croce è posta al centro e davanti alla stessa
figura, contrariamente alla tradizione in cui sta sempre dietro al Santo o al suo fianco (Rubens e la statua di
Duquesnoy in San Pietro). ll Santo è costretto perforare con delle gallerie lo stesso simbolo per proclamare la sua
esistenza. Una X è presente anche nella formella
ai suoi piedi e anche nel cielo, a suggerire
all’osservatore come il significato del simbolo nel tempo sia cambiato: dall’ambito religioso e martilologico della
tradizione cristiana è trasmutato in
emblema dell’ignoto e della enigmaticità dell’esistenza (De Chirico, Composizione metafisica). Anche i vagoni
ferroviari sono una citazione del moderno in arte (Magritte, Il tempo trafitto) ma anche una constatazione che quel simbolo appartiene prosaicamente anche
alla nomenclatura del mondo ferroviario.
Sant’Erasmo fu vescovo di Antiochia e martire al tempo di
Diocleziano, nei primi anni del IV secolo. Nell’incisione il suo simbolo, l’argano
a manovella, occupa lo spazio centrale. Montato su una imponente struttura esso
raccoglie, arrotolandoli, gli intestini
del Martire condannato all’eviscerazione (l’asporartazione degli organi
interni), un supplizio spesso rappresentato nella tradizione con inevitabili
toni truculenti ed efferati (Sebastiano Ricci, Giacinto Brandi o Nicolas
Poussin). La condanna sembra alludere
alla volontà dei persecutori di strappare dal corpo quella Fede di cui non capivano il rivoluzionario messaggio. I lunghi pali
sono un’esplicita citazione della Leggenda della vera croce di Piero della Francesca, quando l’ebreo Giuda
viene estratto dal pozzo in cui era
stato gettato, per convincerlo a rivelare il luogo dove era sepolta la croce di
Cristo. Gli intestini del Martire però trapassano il suo corpo e sembrano
provenire da una cavità molto più profonda, sottostante il marmoreo sarcofago su cui è stato abbandonato il corpo, mentre la sua anima, con ampie volute, volteggia già lontana nel cielo verso quel
Paradiso tanto agognato.
Sant’Elena è il personaggio
principale della sopracitata Leggenda
della vera croce e con la croce come
simbolo è sempre rappresentata. Anziana madre dell’imperatore Costantino,
intraprende, nel 327-328, un lungo e
pericoloso viaggio in Terra Santa nei luoghi della Passione di Gesù, inaugurando quello che diventerà uno dei
pellegrinaggi più famosi della storia. Come un’archeologa ante litteram, vuole ritrovare dopo più di due secoli il patibolo su cui morì Cristo. Lo ritroverà e sul luogo del Calvario erigerà la basilica del Santo Sepolcro. Porterà un
frammento a Roma dove farà costruire la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme
per costudirlo .
Quello di Sant’Elena non è solo un pellegrinaggio e non è solo una ricerca: è l’atto consapevole della necessità fondamentale
della costruzione simbolica della nuova Religione, che individua nella Croce il
suo significato più distintivo e più profondo. In questo senso, Sant’ Elena, proprio con quel gesto di ricercare la Croce e di innalzarla a simbolo assoluto del Cristianesimo, è una costruttrice del nuovo Credo e con questo aiuta la nuova Religione ad
affermarsi definitivamente nella Storia.
Altro caso di ipertrofia del simbolo, osservato in Santa Margherita, si trova nell’incisione dedicata a San Floriano. Il soldato dell’esercito
romano è stato gettato nel fiume con
una macina da mulino al collo nell’alta
Austria, per aver difeso i Cristiani. La macina è diventata una mastodontica
coppia di mole da frantoio in preda ad un irrefrenabile moto inerziale, che
porterà il Santo alla tragica fine. La
scena descritta, per l’ambientazione (il ponte in tronchi di legno e il fiume), è
un debito esplicito al Martirio di San Floriano di Albrecht Altdorfer, anche
se in questa non c’è traccia della rassegnata accettazione del Santo, nella sua
giovanile nudità. Nella scena c’è una ambiguità di fondo. Un legionario è
trascinato dal moto invincibile delle possenti macine a cui è del resto
vincolato ma, nello stesso tempo, non si sa se cerchi disperatamente di
governarne in qualche modo il moto o invece lo assecondi, conscio del suo
destino, verso la tragica fatalità che lo aspetta. L’ambiguità forse deriva dal
fatto che nel sacrificio dei Santi, per
noi moderni, è difficile distinguere tra una
Imitatio Christi portata alle estreme
conseguenze e la tragica e mistica pulsione verso l’immolazione e l’annullamento di sé.
Questo tema ricorre anche nel San
Sebastiano. Ufficiale dell’esercito romano e protettore dei Cristiani, nudo
come Cristo è martirizzato dalle frecce, a cui sopravviverà per miracolo. Per
questo è invocato come Santo taumaturgo
in caso di malattie o epidemie, spesso insieme a San Rocco, altro santo
guaritore. La tradizione (per tutti Mantegna e Reni) lo rappresenta con il suo giovane corpo eburneo e dalle forme
perfette, sereno e trionfante sul martirio che dovrebbe essere per tutti micidiale. Nell’incisione che porta il suo nome, appeso come Cristo alla colonna, c’è quel che resta di un nero corpo catafratto,
tragicamente prostrato dall’agonia e ormai quasi privo vita. Sopra la colonna a
cui è legato, ci sono delle volute tentacolari, un motivo simbolico che vuole alludere
al potere della Chiesa, la cui forza è
fondata sul sacrificio dei Santi, la cui
testimanonianza (martiri in greco significa “testimoni”) è fondamentale
per la trasmissione del suo messaggio religioso al mondo intero, che avviene attraverso una sinuosa quanto inquietante
antenna.
Nell’altra versione il santo, crivellato dalle frecce su un campo di
battaglia, è letteralmente pietrificato dal dolore. Forse lo aspetta un crollo mortale
o, forse, riuscirà ad alzare almeno la testa verso quel piccolissino simbolo di
redenzione sulla montagna in lontananza.
Vescovo di Roma e quarto Papa e Padre della Storia della Chiesa,
San
Clemente fu martirizzato alla fine del I secolo d.C. Nell'incisione non c’è nessuna traccia della sua figura. Solo il suo simbolo, l’ancora, campeggia nella desolazione di un deserto. La
sua presenza è solo evocata dai paramenti con le insegne del Capo della Chiesa e dal
ponderoso messale, da cui fuoriesce l’estremità di un pastorale. La grande ancora
di ferro ricorda il suo sacrificio, quando gli fu legata al collo prima di
essere gettato in mare da una nave. La
leggenda vuole che nel luogo del suo martirio, il mare ogni anno si ritirasse per
alcune miglia, tanto da rivelare il sacrario con le sue spoglie, meta
incessante di devoti pellegrini.
Anche di Sant’Apollonia non c’è
alcuna evidenza, ma è il suo simbolo, il dente, a parlarci di Lei. La Santa fu vittima
di una sommossa popolare contro i Cristiani,
sobillata da un indovino pagano nella Alessandria d’Egitto del III secolo.
Apollonia, un'anziana donna cristiana nubile, che aveva aiutato i Cristiani e
fatto opera di apostolato, venne catturata con gli altri e venne percossa al
punto di farle cadere i denti. La sua Passio
racconta il suo supplizio preceduto da torture durante le quali le furono strappati tutti i
denti con le tenaglie. Lei stessa si gettò sul rogo che la attendeva per
evitare altre sevizie.
Il molare, suo personale attributo, femminilmente
ingentilito, sembra assediato da una
torma scomposta di tenaglie e chele seviziatrici. Il candore del simbolo e il suo isolamento sono il segno
manifesto della sua spirituale superiorità e insieme della sua santa intangibilità.
A volte al simbolo accade che si moltiplichi. È il caso di Santa Agata, patrona di Catania, martire durante le persecuzioni sotto l'imperatore Decio nel 250 d.C. Il racconto del suo sacrificio narra che tra le tante torture le fossero
strappati o tagliati i seni. È per
questo che nella tradizione iconografica, da Piero della Francesca a Zurbaran,
la Santa è rapprentata con la palma
del martirio in una mano mentre con l’alta regge un piatto su
cui si trovano i seni recisi, come una piccola natura morta. In questa incisione i simboli si sono
quadriplicati così come le braccia della Santa,
rendendo quasi inevitabile un
accostamento con la dea indiana Kalì e
la greca Demetra di Efeso, in una
rappresentazione sincretica di una vergine martire cristiana che è, nello
stesso tempo, una divinità pagana misteriosa e potenzialmente pericolosa, come
il vulcano sullo sfondo della scena. La moltiplicazione del simbolo è tanto irrefrenabile, che se ne osservano visibili cenni anche nelle
cupole delle torri della cinta muraria e
nelle alte nuvole del cielo.
Anche in San Simone si assiste allo
stesso fenomeno della moltiplicazione del simbolo. Simone, Apostolo e Santo, è
un pescatore di Galilea, da qui il simbolo della barca. Diventato evangelico “pescatore di uomini”, (anche il Libro è
un suo simbolo) subisce il martirio nella lontana Armenia. Il suo corpo viene
fatto a pezzi con una sega, probabilmente come quella dei boscaioli di un
tempo. La triplicazione del simbolo vuole sottolineare l’accanimento del martirio
di un venerando Santo trasmutato in
albero, le cui radici affondano proprio in
quella barca in riva a quel lontano lago,
che lasciò per sempre seguendo la parola di Gesù.
L’Apostolo Pietro è il prescelto, la “pietra” su cui sarà edificata la Chiesa,
il custode delle ”le
chiavi del Regno dei cieli”. Venne
crocefisso a Roma, per sua stessa richiesta a testa in giù, fra il 64 e il 67 d.C., durante le
persecuzioni anticristiane ordinate dall'imperatore Nerone. La presenza di San Pietro
nell’incisione viene evocata dall’accostamento delle chiavi, suo simbolo principale e la
cupola della chiesa più importante della Cristianità. Le chiavi inserite nelle
toppe sembrano alludere al fatto che non aprano il Regno dei Cieli ma qualche misterioso segreto custodito nella Sacra Istituzione, mentre
quella del Santo sembra poter schiudere le
insondabili profondità del pensiero teologico di quella Chiesa, di cui è il
fondatore.
San Dionigi sembra
non avere simbolo particolare
ma, in realtà, è la sua stessa testa l'attributo iconografico principale,
che ha tra le mani e che è il suo caratteristico emblema. Il Santo è stato vescovo di Parigi (Saint Denis) e martirizzato a Montmartre
(Monte del martirio) nella seconda
metà del III secolo d.C. È un santo cefaloforo,
cioè un Santo di cui si narra nelle
agiografie che, dopo la decapitazione, avrebbe raccolto la propria testa
mozzata, reggendola con le mani. La postura dell’immagine del Santo, goticamente paludato sotto un nero mantello, con un piede puntellato
su un basso parapetto di pietra, è un
richiamo diretto al San Floriano
di Francesco del Cossa, che era collocato nello scomparto sinistro in alto del Polittico
Griffoni. Il Santo regge sul ginocchio destro
il proprio capo con mitra vescovile e maschera antigas.
Difronte alla devastante repressione
romana, i primi Cristiani furono dei
combattenti non violenti di smisurato coraggio e dovettero affrontare le mortifere e velenose persecuzioni di un nemico che non riusciva a
capire le ragioni profonde della loro Fede. La maschera di San Dionigi è a sua
volta il simbolo di questa paziente e
ferma resistenza cristiana, che permetterà alla nuova Religione di trionfare
sui persecutori.
La tradizionale rappresentazione di Santa
Lucia non è diversa da quella di
Sant’Agata (spesso ritatte insieme). Lucia nacque da una famiglia nobile verso
la fine del secolo III a Siracusa, allora capitale della Sicilia. Devota di
Sant’Agata e denunciata come cristiana, nel martirio le sono stati strappati gli
occhi che mostra come suo simbolo in un piatto o una coppa. Per l’incisione il
punto di riferimento iconografico è ancora Francesco del Cossa, che ha ritratto
Santa Lucia nello scomparto destro del polittico Griffoni. In questo
quadro la Santa, con un’originalissima
invenzione, tiene nella mano sinistra
uno stelo di fiore da cui fuoriescono non due boccioli ma i suoi stessi
occhi. Quello stelo con gli occhi della Santa si trovano anche nell’incisione,
in un piccolo vaso trasparente vicino alla figura. Nella scena rappresentata, la postura della Santa e la
scala appoggiata al cornicione sono
delle citazioni dalla Melancolia di
Dürer. La martire, priva della vista e con il volto nascosto dai bendaggi che coprono la mutilazione,
sembra voler guardare attraverso un altro occhio posato sulle sue ginocchia (con al centro l’occhio di Horus) per vedere quell’invisibile che solo l’anima può vedere.
Santa
Cecilia, martire e patrona della musica, viene quasi sempre rappresentata con un piccolo organo portativo nelle mani o al
suo fianco (Raffaello, Orazio Gentileschi), anche se il motivo di questa
associazione rimane tuttora incerto. Nata da una nobile famiglia a Roma,
sposò il nobile Valeriano
che la seguì nella nuona Religione. Insieme si dedicaroro alla sepoltura
dei cadaveri dei Cristiani allora proibita e per
questo arrestati e giustiziati, nel 230 d.C..
L’incisione che la rappresenta è un
esplicito omaggio all’arte di Arcimboldo, fondata sull' associazione di oggetti
di un’unica area semantica, collegati metaforicamente al soggetto rappresentato. In questo modo l’immagine della Santa è assemblata unicamente con un accumulo di strumenti musicali, mentre il suo simbolo tradizionale, l’organo e le sue canne, si trasformano in una specie di sonora quinta vegetale della scena.
Come altri Santi (vedi Santa Agnese
e Sant’Antonio) anche San Rocco ha per simbolo un animale, un
cane. Pellegrino francese (da qui gli attributi del mantello, del bastone, del
cappello e della fiaschetta) è diretto a
Roma, dove cura e guarisce i malati dell’epidemia di peste che infuriava in Italia, nella seconda
metà del Trecento. Durante il viaggio di ritorno si ammala della terribile
malattia e si isola in una grotta per
non contagiare altre persone. A salvarlo
dalla malattia e dall’inedia fu un
cane che provvide quotidianamente a
portargli del pane. Il più invocato Santo taumaturgo, spesso rappresentato con San Sebastiano, è ritratto nella tradizione mentre offre alla vista dell’osservatore la coscia nuda, a mostrare il bubbone che gli è
comparso vicino all’inguine. Nella incisione, il Santo-viaggiatore è bloccato nei movimenti dal morbo contratto
e le sue ferite sono esposte come cavità di un vecchio tronco malato. Il cane salvifico,
con l’insegna di San Giacomo sulla testa, viene dal Cielo ed è appena atterrato in
suo soccorso portando quel pane che lo guarirà definitivamente.
Anche
Santa Agnese ha come simbolo un
animale, l’agnello, perché, come la piccola creatura simbolo a sua volta del
sacrificio di Cristo, viene sgozzata con
un colpo di spada alla gola, a soli 12 anni, nei primi anni del IV secolo. Giovanissima Santa romana di nobili origini, prima della
esecuzione finale è condannata al rogo come maga ma le fiamme, per miracolo, si divisero sotto il suo corpo e i capelli le crebbero tanto da coprirne la
nudità. L’agnello tra le sue braccia ha
le zampe anteriori legate, richiamo all’Agnus
Dei di Zurbaran, ma ha anche le forme di una sonda spaziale che dalle
profondità dell’Universo è approdata sul pianeta ‘sbagliato’ e tra le
braccia di una donna con cui condividere un identico destino.
San Biagio, vescovo armeno, fu
martirizzato nel 316, tre anni dopo l’Editto di Milano che concedeva la libertà
di culto ai Cristiani. I suoi torturatori straziarono il suo corpo utilizzando dei pettini in ferro, che si usavano per cardare la lana. Un’ulteriore
condanna sembra gravare sul Santo, quella di portare degli enormi e pesanti
strumenti della sua tortura sulla sue vecchie spalle, nell’ultimo tragitto che
percorre, lui protettore dei viandanti, appoggiandosi ad un bastone che
termina con due candele intrecciate (altro suo attributo), la cui fiammelle sembrano assecondare il suo passo incerto e stanco.
San Cristoforo è come San Biagio un Santo ausiliatore e patrono dei viaggiatori.
Era un
gigante traghettatore che un giorno aiutò un bambino a passare sull’altra riva
del fiume. Il gigante se lo caricò sulle
spalle e cominciò il tragitto; ma più si inoltrava nel fiume, più il peso del
fanciullo aumentava, tanto che con molta fatica riuscì a raggiungere la riva. Lì il bambino rivelò la propria identità: era
Gesù e il suo peso, che il gigante (Cristoforo in greco significa “portatore di Cristo”) aveva sostenuto, era quello del mondo intero
salvato dal sangue di Cristo. Questo incontro straordinario trasformerà Cristoforo in evangelizzatore e
poi in Martire.
Ma forse in quell’attraversamento è accaduto qualcosa di inaspettato e di completamente imprevisto. Quel viaggio così travagliato non è stato solo un
difficile passaggio attraverso uno spazio fisico pericoloso, ma anche un
misterioso passaggio temporale. Il gigante, giunto all’approdo, da
colosso che era si ritrova vecchio e ischeletrico, mentre il
bambino si è trasformato in adulto ormai maturo. Tutte e due, però, non potranno
sfuggire al tragico sacrificio a cui sono
destinati.
Sant’Antonio era un eremita dell’Egitto vissuto tra III e
IV secolo e fondatore del Monachesimo cristiano. Come altri anacoreti dell’epoca, abbandona la corruzione della città e si rifugia nel
deserto dellaTebaide testimoniando la propria fede con una ascesi solitaria e
radicale. È proprio nel deserto che i
suoi discepoli lo troveranno privo
di coscienza e coperto di piaghe e ustioni. Erano i segni
della lotta con il Diavolo che era
venuto a tentarlo con i suoi mostruosi e ripetuti assalti. Antonio vince le brutali tentazioni del Maligno e le fiamme
dell’Inferno mostrando quel coraggio e quella fermezza che ebbero i primi Martiri cristiani. E per questo
diventerà un Santo molto amato e riconoscibile per via della tonaca monacale,
del bastone a forma di T e del
maiale, dal cui grasso si ricavavano quei linimenti, che erano l’unico rimedio contro
quel devastante “fuoco” che porta proprio il suo nome.
Per la popolarità del Santo taumaturgo, Le tentazioni di sant’Antonio diventeranno uno dei
soggetti più frequentati nella storia della pittura europea. Il tema
della lotta tra il Male con le sue insinuanti lusinghe e la sua proteiforme ferocia e la
solitudine del Santo, armato della sola Fede, ha percorso la storia dell’Arte dal Rinascimento
fiammingo (Bosch, Brueghel , Grünewald)
fino alle avanguardie del Novecento (Max Ernst e Dalì). Le tentazioni
assumono forme fantastiche di animali ibridi, frutto di una contaminazione contro
natura, dove ogni limite tra il mondo umano e animale è cancellato.
Oggi, nel
nostro mondo dominato dalla Tecnica, quei mostri inevitabilmente sono anche macchine e bestie nello stesso tempo, impegnate però in un violenta lotta intestina e del tutto
estranee e indifferenti al Santo che, assorto nelle sue meditazioni, è finalmente
libero da ogni loro maligna minaccia.
Nel Vangelo Secondo Giovanni si racconta l’incontro tra Cristo
e San Bartolomeo, chiamato nel testo
Natanaele, avvenuto grazie all’amico Filippo. Vedendolo arrivare Gesù esclamò:
“Ecco davvero un Israelita in cui non c’è
falsità”. San Bartolomeo chiese a Cristo come facesse a sapere chi fosse
e lui rispose: ”Prima che Filippo ti
chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico”. Questo riconoscimento
inaspettato sembra toccare nel profondo il cuore dell’uomo: da allora il
pescatore di Cana diventerà Apostolo ed evangelizzatore in diverse regioni
orientali, dalla Mesopotamia fino in India. Finché non giunge in Armenia dove, secondo la tradizione, sarà martirizzato
attraverso lo scuoiamento. Per questo nell’iconografia il suo attributo è, oltre
al libro, il coltello e la sua stessa pelle (Michelangelo, Giudizio Universale), a volte portata come un mantello (statua di
Marco D’Agrate, nel Duomo di Milano).
Nell’incisione, San
Bartolomeo subisce il martirio come fosse proprio ‘quel
fico’ sotto cui lo ha visto per la
prima volta Cristo, forse vicino alle sponde del lago. A terra i resti di una violenta scortecciatura, su un
albero squassato da un colpo d'ascia che l’ha spaccato i due parti, a testimoniare come sia stata dirompente, nella vita del
Santo, la potenza della Chiamata del
Salvatore e della sua Parola e come
queste abbiano definitivamente cambiato
la sua vita, segnandone il destino verso il martirio e la santità.
San Girolamo è una
delle figure più rappresentative e complesse della storia della Cristianesimo.
Padre e dottore della Chiesa, San Girolamo
fu teologo, biblista e tradusse in latino il testo biblico (la Vulgata);
fu segretario di Papa Damaso I e destinato a succedergli; monaco e anacoreta nel deserto siriano della
Calcide. Nel 385 d.C. lascia Roma definitivamente e si ritira a Gerusalemme in un convento dedicandosi alla studio ed alla meditazione.
Esistono due iconografie principali del Santo: quella dell’anacoreta solitario
in preghiera, nel deserto o nella grotta di Betlemme,
con un crocifisso, il teschio e la pietra con cui battersi il petto in segno di
penitenza (Cosmè Tura, Antonello da Messina, Pinturicchio, Leonardo,
Dürer, Lotto); e quella del sapiente teologo, ritratto nel suo
studio-biblioteca ad attendere alla traduzione della Bibbia (Van Eyck,
Colantonio, incisione di Dürer, Antonello da Messina). In questo secondo caso viene mostrato con
abito cardinalizio e con il galero (cappello), a volte gettato in terra come segno
della sua rinuncia agli onori. In quest’ultimo contesto spesso compare un leone. La leggenda narra
che, al monastero in Palestina dove dimorava, irruppe un leone con
una zampa ferita dalle spine, scatenando il panico nella piccola comunità.
Invece di scappare impaurito come i suoi confratelli, il Santo avvicinò l'animale e lo curò; il leone si
ammansì e come per dimostrargli gratitudine gli rimase fedele fino alla sua
morte.
Tra i manoscritti del suo studio, il Santo tiene nella sua mano,
poggiata sul Vangelo, la zampa
dell’animale ed entrambi sono trafitti dal chiodo del Sacrificio di Gesù, simbolo
di quella cristiana compassione, di quella misericordia, di quella pietà che comprende e accumuna tutti gli esseri umani ma che si estende ben
oltre, fino ad abbracciare tutti gli esseri viventi sulla Terra,
con cui gli uomini sono destinati a condividere lo stesso effimero destino.
Santo Stefano era
un giovane ebreo greco, (il suo nome significa “coronato”), che aderì alla
prima comunità cristiana formatasi a Gerusalemme. Aveva
una profonda conoscenza delle Sacre Scritture e divenne anche il primo dei
diaconi, scelti dagli Apostoli perché li
aiutassero nel ministero della Fede, provvedendo ai bisogni delle
persone povere, degli orfani e delle vedove. Nella prima metà del I
secolo, i Cristiani erano solo una delle tante sette che popolavano il
mondo ebraico e Stefano ne faceva parte anche come attivo predicatore, che tentava di convertire gli
ebrei che arrivavano nella città. Per questo fu arrestato e condotto al
giudizio del Sinedrio, la massima istituzione ebraica, dove si difese appassionatamente e non ritrattò
le sue convinzioni religiose. Fu per questo condannato a morte nel 35 d.C., trascinato
fuori dalle mura della città e lapidato, come stabiliva la Legge Mosaica per i
blasfemi. Morente sotto i colpi degli
aguzzini, membri della sua stessa comunità d’origine, affida la propria vita a Dio e come Cristo, chiede
a Lui di perdonare i suoi carnefici.
Nella tradizionale iconografia Stefano
Protomartire, il primo martire della Cristianità , indossa la dalmatica, la veste liturgica dei diaconi, ma il suo attributo principale sono le pietre della lapidazione, che a volte
porta in testa o sulle spalle (Giotto e Crivelli). Nell’incisione lo troviamo esanime
nella rigidità della morte, come fosse della stessa sostanza degli strumenti del suo supplizio, quelle
pietre che vorrebbero ricordare tutti i Martiri che, dopo di lui, lo seguiranno nell’estremo sacrificio e che costituiranno
le pietre su cui sarà edificata la potenza della Chiesa. La sua mano ne stringe ancora una, come se
anche lui stesso avesse partecipato al proprio martirio e testimonia, nel comtempo, quel perdono che chiese a Dio per i suoi
uccisori, poco prima di spirare.
San Pierto Martire o Pietro da Verona apparteneva all'Ordine dei Frati Predicatori,
fondato da Domenico di Guzmán, nel 1213, per combattere, in collaborazione della
Inquisizione, i movimenti ereticali e in primo luogo il Catarismo, diffusosi a partire dalla Francia
meridionale. Per sradicare questa eresia,
la Chiesa, si impegnò in una ventennale crociata (1209-1229), con una
devastante ferocia persecutoria. Una crociata combattuta tra Cristiani in territorio cristiano e considerata da alcuni storici il primo esempio
di genocidio.
L’eresia si era intanto diffusa anche in
Italia, soprattutto in Lombardia dove era ormai largamente radicata. Nel 1251 il Papa Innocenzo IV lo nominò
inquisitore per le città di Milano e Como, con mandato di reprimere ogni forma
ereticale. Il 6 aprile 1252, mentre Pietro si stava recando da Como a Milano,
nei pressi di un bosco a Barlassina, venne assalito da un sicario, armato dagli
eretici, che lo colpì violentemente alla testa con una roncola, uccidendolo. L’assassino si pentì del suo gesto, si rifugiò in un
convento, diventò frate domenicano ed ebbe il titolo di beato.
Undici mesi dopo
la morte, Pietro fu proclamato Santo e Martire
e il suo culto, sostenuto dall’Ordine, si diffuse rapidamente in tutta Italia e Europa. L'iconografia lo raffigura di solito in abito
domenicano con un pugnale nel petto e con una roncola, suo attributo
principale, profondamente conficcata di traverso nella testa, un
dettaglio macabro che non può sfuggire all’osservatore e che lo rende subito riconoscibile
(Guercino, Bellini, Cima da Conegliano).
Nell’incisione le due roncole
incrociate, marchiate dalla croce catara,
affondano le lame non nella testa del santo ma nella cupola di San Pietro,
simbolo della Chiesa Cattolica e Romana, perché quella era il vero obiettivo da
colpire per gli eretici, quella il vero nemico da combattere in quell’attentato
che fu l’ennesimo massacro di una sanguinosa crociata durata tre secoli, che
cancellò per sempre i Catari dalla
Storia.
Sant'Eustachio
ebbe una visione. Durante una battuta di caccia inseguì un cervo che si staccò
dal branco. Quando furono soli l'animale gli parlò. Aveva una croce luminosa
tra i palchi ed era Cristo che gli chiedeva si seguirlo nella sua Fede. Eustachio
scelse il Cristianesimo e fu battezzato con tutta la sua famiglia dal Vescovo.
Dopo varie e tragiche traversie si ricongiunge ai suoi e riprende
servizio come ufficiale nell'esercito romano. Sotto l'imperatore Adriano, fu
arrestato come cristiano e condannato a morte insieme con la moglie e i figli,
dopo essere miracolosamente scampato ai leoni del Colosseo. Il 12 ottobre del
120 d.C. Eustachio e i suoi famigliari morirono dentro un micidiale strumento di
esecuzione chiamato il toro di Falaride. Era di bronzo e aveva le forme
dell'animale e grande tanto da contenere alcune persone. Sotto veniva appiccato
un gran fuoco e i condannati rinchiusi morivano per le fatali ustioni tra
atroci sofferenze. Nella tradizione il simbolo di Sant'Eustachio è la testa di
cervo che reca una croce tra i palchi come la si vede, per esempio, sul vessillo
che regge il Sant'Eustachio di Dürer, nella pala d'altare di Paumgartner.
Nella incisione le bandiere tra gli enormi palchi sono un richiamo diretto a
quell'opera. La testa si è trasformata in una specie di tempio ipogeo con ai
lati le grandi corna a ricordo del martirio del Santo. A sostituire la Croce è
Il Monogramma racchiuso non nella tradizionale corona, simbolo di vittoria, ma nell'uroboro, simbolo di eternità.
San Longino era
il centuriore romano presente alla morte di Cristo sulla croce. Per abbreviarne
l'agonia, anzichè spezzare le ossa delle gambe come prescriveva la legge,
Longino, come atto di pietà e per accertarne il decesso, preferisce colpire il
costato di Gesù con la punta della sua lancia. Dalla ferita esce del sangue che per
miracolo lo guarisce da una infermità agli occhi. Il Santo abbraccia la Fede
cristiana e secondo una leggenda diventa evangelizzatore in Cappadocia e per
questo subisce il martirio venendo decapitato.
Tradizionali attributi del Santo sono la lancia, che si trasformerà nei secoli
in una leggendaria reliquia e l'elmo, come si può osservare, tra le tante rappresentazioni, nella
colossale statua che il Bernini gli ha dedicato in San Pietro. Nell'incisione il simbolo si è
moltiplicato a dismisura e da attibuto si è trasformato in strumento di un atroce martirio per il Santo o di quel che rimane di
lui, una specie di vuoto guscio mortale, abbandato vicino a quella croce che ha segnato per sempre il
suo destino. Sant'Ippolito, sacerdote
e teologo, colto e austero, visse nell'epoca della dinastia dei Severi,
tra la fine del II e i primi decenni del III secolo d.C, in un'epoca di
tolleranza religiosa che permise alla Chiesa di riorganizzarsi ma anche
di dividersi al suo interno in funeste scissioni. Ippolito era giunto
ad accusare di eresia lo stesso Pontefice San Zefirino e il suo diacono
Callisto. Quando quest'ultimo fu eletto Papa nel 217, Ippolito si fece
eleggere alla stessa carica dai suoi seguaci, diventando di fatto il
primo Antipapa della storia della Chiesa. Lo scisma permase fino al
pontificato di San Ponziano, quando con la fine dei Severi, nel 235
d.C, il nuovo imperatore Massimino abolì politica di libertà religiosa
e fece arrestare i due Papi, che deportò in
Sardegna condannandoli ai lavori forzati nelle miniere. Qui Ponziano e
Ippolito si riconciliarono e furono entrambi martirizzati diventando
Santi.
Secondo una Passio il corpo di Sant'Ippolito fu legato a dei cavalli e
trascinato nella polvere come quello di Ettore legato da Achille al
suo carro, sotto le mura di Troia. Secondo altre fonti, il
corpo del Martire fu squartato legando mani e piedi a dei cavalli
aizzati in direzioni diverse, come è rappresentato nel trittico
dedicato al Santo dal pittore olandese Dieric Bouts.
Nella
incisione, la scena del supplizio, che avviene in una specie di
arena, è rappresentata nel momento in cui il corpo disanimato di Sant'Ippolito,
ridotto ad uno scarno manichino dalle vaghe sembianze umane, sta
per essere definitivamente disarticolato dalla furia delle forze che lo
stanno dilaniando. Solo la piccola corona d'alloro ricorda, nello
strazio delle sue membra ormai irriconoscibili, il suo sacrificio per la Fede e la sua
eterna santità.
Santa Dorotea
era una giovane donna che, sul finire del III secolo, viveva a Cesarea,
in Cappadocia, in cui stava fiorendo una delle prime comunità
cristiane. Abbracciata la Fede in Cristo e per non abbandonare la sua
devozione, affrontò, con coraggio e fermezza, la persecuzione e il
martirio. Mentre veniva condotta al patibolo, Dorotea mantenne la
promessa che aveva fatto tempo prima al giudice Teofilo che, nel
condannarla alla morte per decapitazione, l’aveva sfidata dicendo:
“Mandami delle rose e delle mele dal Paradiso”. Così, poco prima di
essere uccisa, il giudice si vide recapitare da un angelo, in pieno
inverno, un cesto con rose e mele. Immediatamente anche lui credette in
Cristo e per questo subì il suo stesso supplizio. Santa Dorotea, il
cui nome in greco significa “dono di Dio”,
è colta, nell’atto di deporre, sulla sacra mensa, proprio di quel cesto
di rose e mele, suo principale attibuto, come se nel gesto
dell’offerta staccase da sé la parte più profonda della sua anima.
Santa Marta
di Betania, un paese vicino Gerusalemme, è citata nei Vangeli di Luca e
di Giovanni, come sorella di Maria e di Lazzaro, tutti e tre amici di
Gesù. Dopo l’Ascensione di Cristo, secondo la Legenda aurea di Iacopo da Varagine, insieme ai fratelli, “fu gettata dagl’infedeli su una nave senza vele, senza remi e senza nocchiero”.
La nave approdò miracolosamente alle foci del Rodano, in Provenza, dove
un drago, chiamato Tarasca, si nascondeva nelle acque del fiume. Per
difendere la popolazione dalle continue aggressioni del mostro, Santa
Marta, con coraggio e salda Fede lo affrontò, armata solo di acqua
santa e aspersorio. Il “serpente d’acqua”,
simbolo di un paganesimo crudele e indomabile, si ammansì e potè essere
così ucciso dalle genti del luogo. Forse, in questo pericoloso
confronto, la malefica creatura non fu così arrendevole come vuole la
tradizione e prima che la intrepida Santa potesse domarne la ferocia
dovette respingerne i micidiali attacchi e resistere alle strette
mortali delle sue gonfie spire.
San Vito
soffrì il martirio in Sicilia all’età di dodici anni, nel 303 d.C.
Erano i tempi dell’imperatore Diocleziano e Vito, che aveva già fama di
grande guritore, sanò il figlio del sovrano affetto forse da una
malattia nervosa, una forma di epilessia che si manifesta con spasmi
che fanno pensare a una specie di danza, che proprio dal Santo prenderà
il nome. L’ingratitudine di Diocleziano fu impietosa e non gli
risparmiò, per allontanarlo dalla Fede, orrendi supplizi come quello
di essere immerso in un calderone di pece bollente, a cui il Santo
sopravvisse.
Nell’incisione, in una
cella che si affaccia sul mare, immersa in una caldaia ormai
danneggiata dall'eccessivo calore, una figura sembra tremare, come
se fosse in preda ai brividi di freddo: è Vito che, nel tremito delle
forme, silenziosamente proclama la sua invincibile santità.
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Presso Milano, passione di san Pietro da
Verona, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e martire, che, nato l’abito
dallo stesso san Domenico; con ogni mezzo si impegnò nel debellare le eresie,
finché fu ucciso dai suoi nemici lungo la strada per Como, proclamando fino
all’ultimo respiro il simbolo della fede.
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