Dedicato a Enrico Baroncelli

LA VALSASSINA E CASARGO AI TEMPI DEL CATASTO TERESIANO

A conclusione della Guerra di successione Spagnola (1700-1714), l'Impero Austriaco si sostituisce alla Spagna nel predominio sull'Italia e sul Ducato di Milano in particolare. Dal 1714 cominciò la dominazione austriaca in Italia che durerà 150 anni, salvo il periodo napoleonico, e cioè fino all'anno 1866.
La “Lombardia austriaca” dei primi del Settecento aveva un'estensione molto inferiore al dominio visconteo-sforzesco e non raggiungeva i confini della regione attuale. Infatti, non appartenevano più allo Stato Milanese, dalla metà del quattrocento (pace di Lodi 1454), le provincie di Bergamo e Brescia, cadute sotto il controllo della Repubblica Veneta, dopo un aspro conflitto tra gli Sforza e la Serenissima che ebbe per teatro anche la Valsassina. Mancavano la Valtellina, sotto i Grigioni Svizzeri dal 1512; Alessandria, l'Oltrepò Pavese e la Lomellina ceduti al Regno Sabaudo nella prima metà del Settecento. Il territorio era quindi compreso tra l’Adda e il Ticino, confinando a Nord con La Valtellina e terminava a sud con le campagne del Lodigiano, con il Po come confine meridionale. Il Ducato di Mantova sarà accorpato definitivamente solo nel 1745 e dotato però di forti autonomie rispetto a Milano. 
Dopo un venticinquennio di guerre quasi continue, lo Stato milanese ne usciva economicamente e finanziariamente prostrato. Alle conseguenze disastrose dei conflitti armati, si aggiunsero i pesanti effetti dell’accresciuto prelievo fiscale
dell'amministrazione spagnola, che non era stata in grado di gestire un’inarrestabile stagnazione economica. La nuova dominazione austriaca si rese subito conto che senza l’introduzione di radicali cambiamenti e di una profonda e complessiva riorganizzazione interna dello Stato, quest’ultimo sarebbe andato incontro ad un sicuro fallimento e solo delle incisive riforme dell’apparato finanziario, fiscale e amministrativo avrebbero potuto assicurarne la sopravvivenza.  
Gli interventi, realizzati con un forte accentramento decisionale del governo centrale contro particolarismi, autonomie e privilegi locali, riguardarono il riordino del sistema degli appalti delle imposte, la sistemazione del debito dello Stato, la riorganizzazione della struttura amministrativa e dei rapporti tra centro ed enti locali e la costituzione di un moderno sistema fiscale uniforme su tutto il territorio, basato su un Nuovo Catasto, che fornisse una base imponibile più ampia e un’equa ripartizioni del carico fiscale, garantendo correttezza e certezza alla tassazione. Simbolo di questa complessa manovra riformatrice è la monumentale opera del Nuovo Censimento di tutte le proprietà dello Stato di Milano e quindi anche quelle della Valsassina e delle sue Comunità. Il Nuovo Catasto è necessario anche per aggiornare le stime dei fondi rurali fermi alla metà del Cinquecento ed ha come obiettivo quello di correggere incongruenze e ingiustizie all’interno dei vari Territori dello Stato, che erano le nefaste conseguenze del precedente censimento, quello chiamato di Carlo V (1549-52). In quella occasione, per la prima volta, vengono misurati con precisione tutti i possedimenti del territorio, utilizzando un’unica unità di misura, la pertica milanese (654 mq) ed esprimendo i valori dei fondi in scudi, che corrispondono ad  1/6 della Lira. Nella elaborazione di questo catasto, la nobiltà milanese non volle però accettare il principio che la tassa fondiaria fosse imposta a ogni singolo proprietario e pretese che fosse mantenuto in vigore la tradizionale ripartizione delle tasse sulla Comunità, le 57 Pievi o Territori in cui era diviso lo stato. Questo sistema consentiva corruzione e iniquità a favore dei più potenti, i nobili, i principali proprietari che godevano di una assoluta supremazia all’interno delle singole amministrazioni locali. È per questa ragione che, nel Cinquecento, non vennero misurate le singole proprietà e redatte le relative mappe (come nel Catasto Teresiano), ma venne definita la superficie complessiva dei vari Territori. Di conseguenza, quando lo Stato assegnava la quota di tributi spettante ad ogni singolo Territorio, era questo a determinare, nel proprio ambito e a proprio arbitrio, il riparto per i singoli contribuenti, che avveniva a favore dei più ricchi cittadini di Milano, cioè la classe nobile milanese. Questa possedeva con la Chiesa (che era esente dalla tassazione) i 2/3 della terreni tassabili nella parte più fertile e redditizia della pianura lombarda, cioè in 30 delle 57 Pievi o Territori, nella parte meridionale del Ducato. È proprio qui, nella bassa pianura, che si concentra la proprietà dei cittadini milanesi e in primo luogo della sua nobiltà cittadina.
Inoltre nel catasto di Carlo V, per la prima volta, si distinguevano i terreni da tassare a seconda delle varie destinazioni d’uso (prato, arativo, risaia, bosco, vigneto ecc), ma nella tassazione non si teneva conto della redditività e si favorivano i terreni della pianura rispetto a quelli collinari o montani. Per fare un esempio, le risaie erano tassate per 5 scudi a pertica mentre i ronchi, i terrazzamenti collinari, per 8. Questo favoriva i terreni più produttivi e fertili della pianura, dove era nettamente prevalente la proprietà nobiliare, il cosiddetto “perticato civile”, le terre dei cittadini del capoluogo, a danno di tutti gli altri proprietari non milanesi, che costituivano il “perticato rurale”, cioè le terre dei contadini, terre non nobiliari, presenti nei rimanenti 27 Territori, dove, tra l’altro, la proprietà richiedeva più lavoro e le rese erano più scarse. Il risultato era che il “perticato rurale”, di poco inferiore a quello
"civile", cioè quello  dei cittadini di Milano e provincia per intenderci,  sopportava prima del 1760 un carico fiscale quasi doppio[1], determinando un forte squilibrio del contributo fiscale tra la parte bassa (“perticato civile”) e alta (“perticato rurale”) dello Stato milanese.
La Valsassina, dove non esiste proprietà di cittadini milanesi e distinzione tra i due perticati, in quella occasione, con l’introduzione del catasto di Carlo V, ha goduto di una situazione di privilegio in quanto la valle venne mantenuta esente per i Beni Comunali, che costituivano circa i 2/3 del territorio e questo in ragione dell’essere zona di confine dello Stato e area di montagna e quindi segnata da precarie condizione socio-economiche che la pongono a rischio di spopolamento.

La prima Giunta e il “Processo delle Tavole”

Elaborato in un arco temporale di oltre quarant'anni, dal 1718 al 1760, e benché iniziato dall'imperatore Carlo VI, fu chiamato Catasto Teresiano da Maria Teresa che, nel 1740, allora ventitreenne, figlia maggiore in assenza di eredi maschi, salì al trono d'Austria alla morte del padre. Il Censimento Teresiano, a differenza di quello di Carlo V, fu generale perché interessò tutte le proprietà, anche quelle ecclesiastiche e fu particellare in quanto vennero effettuati degli accertamenti oggettivi su ogni singola proprietà, dalle basse pianure irrigue del Lodigiano e Mantovano ai piccoli paesi dell'alta Valsassina. Per queste misurazioni estremamente precise, venne usato uno strumento, la tavoletta pretoriana, perfezionato dallo scienziato e matematico di corte Giacomo Marinoni e adottato per la prima volta nelle operazioni del catasto milanese del 1720, da lui stesso organizzate e dirette. Ogni singola proprietà, misurata con un'unica unità di misura, la pertica milanese ( 654 mq), sarebbe stata rappresentate in mappe redatte in scala 1:2.000, con un'estrema cura per tutti i dettagli del territorio (laghi,  fiumi, ponti, strade) e questo perché le carte, per il Marinoni, avrebbero potuto avere anche un uso militare.
Per
sovrintendere ai complessi lavori del Nuovo Catasto fu nominata una Giunta, composta da funzionari di origine non milanese e presieduta dal giurista napoletano, Vincenzo Miro. Questa decise di raccogliere informazioni sulla situazione finanziaria e fiscale di ogni singolo paese, instaurando un dialogo diretto tra amministrazione centrale e Comunità locali, escludendo da questo processo l’aristocrazia fondiaria, le magistrature, i notabili e il clero. In questa prospettiva viene varata l'inchiesta nota come "Processi sulle Tavole", condotta dai commissari catastali negli anni 1721-23, quando  la complessa misurazione di tutte le proprietà e l’elaborazione delle mappe era stata già in parte completata.
Per quanto riguarda la Valsassina, per ognuna delle sue Comunità, sono convocati dalla commissione presieduta dal Conte Guidobono due amministratori, “sindaci”, di ogni comune a cui vengono sottoposte le stesse domande circa la situazione economica e sociale del loro paese. Precede l’udienza dei sindaci locali, il 14 settembre 1722, la deposizione del Sindaco Generale della Comunità della Valsassina, Michelangelo Manzoni, la più alta autorità politica della valle e patrocinatore dei suoi interessi davanti alle massime magistrature e al supremo organo giurisdizionale, il Senato.
I Manzoni, pur non essendone originari, sono un clan potente e ricco che domina la vita economica e politica della valle e tra il XVII e XVIII ricopriranno ininterrottamente la carica di Sindaco Generale che diventerà, proprio con Michelangelo, vitalizia e di fatto ereditaria. In questi secoli i Manzoni sono protagonisti di una scalata ai vertici del potere economico, finanziario e manifatturiero, utilizzando anche il prestito d’usura per impossessarsi dei terreni di altri proprietari o avversari. Membri del potente collegio dei 39 Notai della Valsassina, diventano ben presto i maggiori proprietari fondiari della valle ma, soprattutto, affermano il loro ruolo di supremazia nel settore chiave dell’economia locale, quello della metallurgia. La Valsassina è l’unico distretto di tutto lo Stato di Milano in cui si trovano miniere di ferro (siderite) per la produzione di ghisa (dieci tonnellate, soprattutto per le palle di cannone) e dove prospera un settore siderurgico, con 6 forni fusori e 25 fucine, che dà lavoro a più di 400 persone. I Manzoni sono gli unici che sono in grado di
controllare l’intero processo di produzione, esente da tassazione all’interno della Valsassina. Detengono le migliori miniere sul Monte Varrone, vicino a Premana e sono in grado di imporre alle varie Comunità prezzi irrisori per uno sfruttamento da rapina dei boschi, per ottenere il carbone necessario per la fusione del metallo; posseggono un altoforno a Premana e quote importanti nella proprietà degli altri; sono proprietari di fucine collegate per la trasformazione del prodotto fuso e in grado di occuparsi del trasporto e della sua collocazione sul mercato. Grazie all’espansione del patrimonio fondiario, all’allargamento dell’attività del credito, data la vasta liquidità disponibile (prestavano denaro anche alle stesse Comunità della valle) e la ricca attività imprenditoriale nel settore del ferro, i Manzoni diventano gli incontestati e temuti dominatori dell’economia e della società della  Valsassina, instaurando un “vero e proprio  regime intimidatorio per impedire a chiunque di opporsi al loro predominio”. [2] Per affermare il loro potere non rinunciano alla eliminazione fisica degli avversari, come nel caso dell’omicidio di Luigi Arrigoni, nel 1639, appartenente ad una famiglia rivale in affari .

La deposizione del rappresentante più autorevole e influente della Comunità della Valsassina, Michelangelo  Manzoni, ha un obiettivo preciso: convincere la Giunta a tenere bassi gli estimi in questo territorio, in considerazione del suo particolare ambiente geografico e del suo infelice clima e delle misere economico-sociali in cui versa la popolazione. Nel suo memoriale traccia un quadro desolante di questa realtà montana che è funestata dall’inclemenza climatica, dalla cronica povertà agraria e dalla scarsità delle risorse, che è all’origine di una larga emigrazione maschile. Tutti questi aspetti della situazione economica e sociale della valle sono confermati puntualmente dai tutti sindaci delle varie comunità nelle loro deposizioni, ribadendo il quadro generale già delineato dal loro capo istituzionale.
Dai verbali del 17 settembre del 1722, riguardanti Casargo, sappiamo che i convocati sono due sindaci, amministratori e proprietari. Il primo è Carlo Francesco Ruberti (è probabile ci sia un errore di trascrizione del cancelliere, non unico nel testo, per cui viene scritto"Ruberti" per "Uberti"), mentre il secondo amministratore è Andrea Cresseri. Le deposizioni dei due sindaci concordano su ogni punto. Per quanto riguarda il comune di Casargo, insieme a Codesino e Somadino, esso è composto da "70 fogolari" ed è censito in “lire 6 di estimo
"e le tasse si pagano "due terzi sul reale (la proprietà) e “un terzo sui fogolari, il personale (tassa sui maschi adulti tra 14 ai 60 anni) e sul bestiame".
Le uniche voci di entrata nel bilancio del comune sono gli affitti, di tre “monti” (i pascoli estivi) su cinque. Non viene specificata la durata ma sappiamo che erano di nove anni, come accadeva in altri Comuni. Il primo “monte”, chiamato Ombrega, è affittato per 307 £ equivalenti a 51 scudi (uno Scudo equivale a I/6 di una Lira) a Bartolomeo Scandella, uno dei principali proprietari di Barzio. Il secondo “monte” è quello di Sasso da Rotto affittato a Lorenzo Cargasacchi a 148 £ e il terzo è Ariale, che in genere non si affitta, "ma al presente per la comune necessità", dato a Andrea Cresseri, il sindaco stesso che depone insieme al Ruberti-Uberti per 102 £, per un totale degli affitti di 557 £. Gli altri due monti, Paglio e Chiarello, restano a disposizione della Comunità. L'altra entrata più modesta viene da due mulini presenti
in paese, affittati a Bernardino Manzolino e Damiano Manzolino, che “pagano l'uno 15 lire all'anno e l'altro lire 20”.
I terreni agricoli del Comune sono così descritti: " I terreni di questo territorio di questa comunità sono tutti senza acqua, e consistono in prati e d'una, e di due tagliate; in campi parte da ara, parte da zappa, in boschi di castano, e da taglio, in costiere e in zerbi (terreni sterili e incolti)". Alla domanda se i terreni si affittano o si "danno a massaro", cioè a mezzadria, la risposta è lapidaria: "Tutti i nostri terreni restano lavorati in casa". Quali "grani" si seminano e quante "stara" (staio corrisponde a 18,2 litri) si usano per semenza? Il Ruberti- Uberti risponde che "si semineranno da cento stare di segale e da trentacinque stare di formentone nero (grano saraceno), e d'orzo bianco, e si semina un poco di canapa".
Riguardo alla quantità del raccolto la risposta è la seguente:" Di segale ne faremo in tutto un anno da ducento cinquanta stara, e degli altri grani da stare cento; non bastando il tutto, per tre mesi al nostro mantenimento". Sul raccolto delle castagne non è possibile nemmeno una stima "essendo molti anni che nel nostre paese vanno male" e per il fieno l’uno afferma che "per una pertica di prato si farà da 70 lire di fieno" e per Cresseri "settanta libbre  all'anno per pertica" (la libbra equivale a 0,3 kg).
 
I commissari catastali  chiedono se, negli anni 1718, 19 e 20, nel territorio ci siano state "urgenze o alcuna disgrazia" e la risposta è:" Siamo sempre soggetti a tempesta e nel 1720 la tempesta ci ha portato via quasi tutto il raccolto". Alla domanda se il "personale è bastante per il lavorerio di tutto il territorio", la risposta non lascia adito a dubbi: "E' bastante, anzi va la maggior parte per il mondo a guadagnarsi il vitto". Il valore approssimativo del terreno alla pertica è di 35 £. I pesi utilizzati nel Comune sono quelli della Valsassina e le misure quelle di Milano. Non ci sono "moroni" (gelsi) quindi niente "bigatti" (bachi da seta). Le anime di Casargo con Somadino e Codesino, secondo le testimonianze dei sindaci, sono in tutto 396.[3] 
Il giorno 13 e 22 settembre sono i giorni delle deposizioni degli amministratori di Indovero e Narro e i convocati sono Pietro Marazzo e Bartolomeo Adamoli. Da queste testimonianze sappiamo che i Comuni sono sempre stati separati ma che hanno in comune la parrocchia. Per Indovero sappiamo che paga 45 scudi (7,5 £) di estimo e 40 (6,6 £) per Narro con 37 "fogolari". I bilanci dei Comuni non hanno entrate significative e solo a Indovero sono affittate alcune case e un “mulino a due ruote". Alcuni terreni in entrambi i paesi vengono dati a mezzadri e i sindaci” tengono a precisare che i due Comuni sono soggetti a “tempeste, brine e venti che l'anno con l'altro ci portano via la metà dei raccolti". A Indovero e Narro si semina segale e il grano saraceno e in entrambi si hanno basse rese: si semina “25 stara di segale e dodici di grani minuti e si raccolgono 70 e 48 di minuti”, compresa la semenza".  A Indovero il raccolto “basta per 7 mesi e a Narro solo tre”, mentre  le castagne" sono molti anni che vanno male". I sindaci affermano che il "personale è abbondante, anzi va tutto fuori di paese a guadagnarsi il vivere" e che "le anime" sono a Indovero 224 e a Narro se ne contano 206. La differenza maggiore con Casargo è che a Indovero e Narro non si affittano i Beni Comunali, probabilmente perché sono considerati indispensabili per la sopravvivenza di una buona parte della popolazione di questi due paesi, caratterizzati da una maggiore precarietà economica. [4]
Le audizioni degli amministratori locali nel corso dei "Processi sulle Tavole", una specie di istruttoria a scopo conoscitivo, non aggiungono molto al quadro già delineato dal  Sindaco Generale. Come tutti i possidenti di tutto lo Stato, anche quelli della Valsassina prevedevano che la realizzazione di un futuro catasto dei nuovi ‘padroni’ austriaci, avrebbe potuto comportare la fine
del vecchio regime fiscale a loro favorevole e un aumento degli estimi delle loro proprietà, con un aumento delle tasse. Tutti volevano scongiurare questo pericolo e da qui le “lamentazioni” che si elevano da tutte le parti della “Lombardia austriaca” con lo stesso tono querimonioso. Tutte i gruppi dominanti  cercano di difendersi da un prevedibile inasprimento fiscale e proteggere i propri interessi, a volte consistenti e ben nascosti, dietro rovinosi scenari dove campeggiano solo endemiche piaghe e un’irrimediabile povertà, che interessa sì una parte della popolazione ma non certamente la sua totalità e non certamente le ristrette élites a capo dei vari territori.
 Le testimonianze dei “sindaci” valsassinesi, come avviene del resto in tutti i Territori, mirano quindi a sottostimare le potenzialità tributarie delle comunità, mettendone in evidenza soprattutto gli elementi di crisi, causati della ristrettezza delle risorse, dovuta alla presenza di terreni di scarso valore con basse rese e raccolti che erano sufficienti solo per alcuni mesi all’alimentazione della popolazione. Questa era già al limite della sopravvivenza e dissanguata dalla emigrazione, in un'area geografica come quella montana, afflitta oltretutto da eventi climatici particolarmente sfavorevoli.
Il quadro socio-economico che si ricava dalle varie testimonianze risulta forse vago e indeterminato, ma le pur scarse e catastrofiche informazioni mettono in luce alcune innegabili criticità del territorio di montagna, come, per esempio, l’insanabile scarsità di terreno coltivabile e la conseguente emigrazione di una parte della popolazione. Sappiamo infatti che l'emigrazione in Valsassina, come del resto in tutta l'area alpina, è endemica e non solo in quel periodo storico [5]. Essa è determinata dalla povertà agraria dovuta alla ristrettezza dell’area coltivabile, insufficiente per il mero sostentamento. Questo stabile  flusso migratorio che, con le rimesse inviate in Valsassina, consentiva la sopravvivenza di chi rimaneva, sarà non solo confermato da altre testimonianze ma anche dai numeri della popolazione, raccolti nel Censimento effettuato nel corso del Catasto, che metterà in luce come in tutte le Comunità della Valsassina il numero delle donne è nettamente superiore a quello degli uomini.
Il clima con le sue inclementi avversità  è un tema sottolineato da tutte le testimonianze (come in ogni parte dello Stato, del resto)  ed è certo che per tutto il Settecento le condizioni climatiche furono molto rigide d'inverno in tutta Europa e soprattutto nell'arco alpino. In questo periodo storico, l’Europa è ancora nel pieno di quella che è stata definita la Piccola Era Glaciale, che si concluderà solo nella seconda metà dell'Ottocento. Essa è stata caratterizzata da un abbassamento della temperatura media nell'emisfero boreale e da picchi di eccezionale freddo nella stagione invernale e precipitazioni nevose che determinarono u
na avanzata dei ghiacciai alpini verso quote più basse di quelle consuete. Fenomeni climatici estremi furono frequenti, anche in Valsassina, in questo periodo insieme a esondazioni, smottamenti ed eventi disastrosi, causati anche dal dissesto idrogeologico, generato anche da un disboscamento selvaggio e senza regole al servizio della rapace e insaziabile metallurgia locale. Un grave episodio di questo genere accadde il 15 novembre 1762. Una frana cancellò il paese di Gero, vicino a Barcone, seppellendo case e animali e causando 112 vittime. L'autunno di quell'anno la piena del Pioverna aveva provocato numerosi danni a molti paesi della valle. Premana e Pagnona erano rimaste isolate per la distruzione di strade e crolli di ponti e c’erano state inondazione di terreni nella valle  con conseguenze tanto gravi da convincere il governo asburgico a concedere a 15 Comuni  un’esenzione fiscale per il primo semestre del 1763 [6]. Quindi è molto probabile che il clima abbia giocato un ruolo particolarmente negativo in quel periodo per l'economia della valle, come del resto in tutta la zona alpina.
Altro elemento interessante delle deposizioni dei sindaci riguarda i Beni Comunali, che in Valsassina potevano arrivare a coprire fino al 90% della proprietà totale disponibile come a Barzio e sui quali venivano, da tempi immemorabili, esercitati diritti riconosciuti dagli Statuti del 1388 e fondamentali per la sopravvivenza soprattutto della parte più povera della popolazione, quali il pascolo, la raccolta di legna, la caccia e la pesca. Dalle testimonianze di Casargo sappiamo che già dal 1722, ma ignoriamo da quando questa pratica sia iniziata, tre "monti" (area di pascolo estivo) su cinque, qualcosa come il 60-70% dei Beni Comunali erano “solitamente” affittati a privati (tra cui lo stesso “sindaco”) e questo, secondo gli amministratori del comune, “per la comune necessità”, vale a dire per far quadrare i bilanci comunali.  Quindi i pascoli affittati non erano ritenuti così vitali per la comunità, i cui diritti potevano essere facilmente sacrificati, anche se Casargo ospitava nel proprio territorio un alto numero di capi di allevamento. Quello che accade a Casargo può essere considerato singolare, ma l’affittanza dei pascoli è ormai pratica diffusa da tempo in tutta la valle. Dalle dichiarazioni dei sindaci delle altre comunità, sappiamo che si affittano i “monti” a Pasturo (ai bergamini 120 £ l’anno); Barzio (un monte a 1330 £ l'anno); Esino, Primaluna, e in quest’ultimo paese sempre allo Scandella che abbiamo trovato a Casargo e Pagnona (2 monti a 538 £). La stessa cosa accade a Premana (ai bergamini 607 £), Crandola (che affittava ai bergamini il monte Dolcigo a 172 £) e Margno (monte Grasso 140 £) che confinano con Casargo. A Margno i confini dei Beni Comunali, da tutti sempre difesi con puntiglio dagli sconfinamenti dei vicini, si fanno ‘labili’ perchè, dalle diverse
testimonianze dei "Processi", sappiamo che Premana acconsente a Casargo e Pagnona l'utilizzo dei propri e la stessa cosa accade tra Casargo e i confinanti Margno e Crandola. [7]  
L’ intangibilità dei Beni Comunali è ormai cosa antica già nei primi decenni del Settecento e si scopre che i vari gruppi dominanti, nei diversi paesi, potevano disporne con libertà, anche per la pochezza delle entrate e a detrimento dei diritti della popolazione più povera. Che la pratica dell'affitto dei Beni Comunali sia continuata arrivando ben oltre l’abuso, e per questo portato alla conoscenza delle autorità austriache, lo lascia capire un editto del 29 novembre del 1763. Nel testo "firmato dal Presidente e dai questori della Magistratura Camerale milanese”, “si vietava agli amministratori locali di affittare i Beni Comunitativi" e si dichiarava che "i contratti di affitto dei Beni Comunali stabiliti dalle amministrazioni locali dopo l'anno 1760 (data di inizio del nuovo Catasto) dovevano ritenersi “nulli”. Addirittura la questione era stata sottoposta alla stessa imperatrice Maria Teresa che aveva deliberato che "li fondi comunali rimangano onninamente nell'antica loro tradizione senza punto innovare sopra li Diritti" [8]. L'intervento del governo asburgico, con altisonanti editti, per il rispetto delle norme consuetudinarie non interruppe tale pratica ormai consolidata da tempo. Questa prassi sarà riconosciuta legittima solo alcuni decenni dopo, quando quegli affitti servivano anche per uscite fiscali proprio per i Beni Comunali, prima del Catasto Teresiano esenti da tassazione in Valsassina, ma tassati con il nuovo regime.
I lavori  preparatori del Catasto, già rallentati dall’opposizione della grande proprietà  laica ed ecclesiastica, che detiene soprattutto nel Ducato di Milano dei 2/3 della proprietà fondiaria della pianura, subirono un lungo arresto per lo scoppio di due conflitti di scala continentale, che coinvolsero tutte le grandi nazioni europee. Dopo la guerra di successione polacca (1733-1738), durante la quale il Ducato e la stessa Milano furono invase dalle truppe francesi e sabaude (1733) e il governatore della città riparò a Mantova, mettendo in salvo tutti i documenti riguardanti il Nuovo Catasto, due anni dopo scoppiò la guerra di successione austriaca (1740-1748). Il conflitto fu innescato, formalmente, dal mancato riconoscimento della Prammatica sanzione dell’imperatore austriaco Carlo VI, con cui si regolava la successione secondo un rigido principio di primogenitura, femminile in caso di assenza di eredi maschi. All’improvvisa morte del sovrano senza discendenti maschi (1740) e alla successione della figlia maggiore, Maria Teresa, scoppia il conflitto tra le potenze europee, durante il quale Milano fu di nuovo occupata. Il conflitto si chiuse nel 1748, con un’ulteriore riduzione del territorio e con la perdita del Vigevanese e l’Oltrepò Pavese, che furono assegnati al Regno Sabaudo.
Con la pace riprendono i lavori del Catasto, sotto la guida di una nuova Giunta (1749), presieduta da un giurista fiorentino, Pompeo Neri, uno dei protagonisti della stagione delle politiche riformiste nel Granducato di Toscana. Il nuovo organismo deve concludere i lavori del Catasto, compilando tutti i registri  che Comunità per Comunità elencavano le singole particelle di terreni, contrassegnate dallo stesso numero d'ordine registrato nelle mappe, con il nome del possessore, il perticato, la destinazione colturale e il valore capitale in scudi. Nel quadro di una riforma complessiva dell’intera amministrazione, la Giunta doveva quindi varare il nuovo sistema di imposizione tributaria, basato sulla imposta fondiaria, proporzionale al valore della proprietà e riordinare il sistema tributario, mettendo fine alla sperequazione nella distribuzione del carico fiscale in favore di Milano, quelle che allora venivano chiamate “sproportioni”, insistentemente lamentate negli anni da molte Comunità e città, quali Cremona, Pavia, Como e Lodi. [9]

I lavori della seconda Giunta e i “45 Quesiti”

Nel 1751, un nuovo memoriale, edito a stampa, viene indirizzato dall’onnipresente Sindaco Generale della Valle, sempre Michelangelo Manzoni, alla nuova Giunta Neri. Lo scopo di questa lunga perorazione è quello di ricordare ai funzionari catastali, prima di procedere all’individuazione degli estimi, la particolare realtà “alpestre” del territorio della Valsassina (“prendendosi circa 12 lupi, e 6 orsi un anno con l’altro”), il suo clima avverso, la povertà agraria e la conseguente “tenuità del raccolto”. Quest’ultimo, scrive il Sindaco Generale, è sufficiente solo per pochi mesi e rende necessaria “la grave spesa” per il grano, importato da altre parti dello Stato dalla Comunità della Valle stessa, “nella quantità di Somme 286 al mese, che sommano 3432 e così Moggia 5148  all’anno, riconosciuti  per la necessarj per l’indispensabile mantenimento di que Terrieri”. Delineando una situazione economica e sociale già intollerabile, che necessitava per la sopravvivenza della popolazione una così ingente importazione di grano (7.000 quintali all’anno  è l’equivalente di di 5.148 moggia), si fa presente alla Giunta che, nel passato, proprio per la povertà della popolazione i Beni Comuni ( 2/3 dell’intera proprietà delle Comunità) non sono mai stati tassati e hanno goduto sempre di immunità, anche nel precedente catasto, quello di Carlo V. In chiusura del suo lungo e appassionato intervento, l’alto rappresentante della Valsassina chiede quindi alla Giunta “la congrua moderazione delle stime ne Beni privati, e la continuazione dell’esentazione di ogni Carico ne Boschi, e Pascoli esclusi da censimenti passati”. [10]
Intanto, tra i primi atti della Giunta Neri c’era stata la decisione di acquisire, in forme più efficaci rispetto al passato, informazioni di carattere tributario, proprietario e demografico su tutti Comuni interessati al nuovo censimento catastale e per questo motivo era stato elaborato un questionario fisso, noto come dei "45 Quesiti" da inviare a tutte le Comunità dello Stato. A queste viene richiesto di redigere un preciso bilancio finanziario e tributario per gli anni 1747-48-49, allegando anche la lista completa dei proprietari-contribuenti di ogni Comunità e tutti i dati sulla popolazione. 
Questo ‘mini censimento’ offre l’occasione di conoscere tutti i carichi fiscali e i sistemi tributari adottati delle varie Comunità in quegli anni, ma anche di portare alla luce il farraginoso sistema di esazione che vigeva nel vecchio regime, in Valsassina come in tutto lo Stato di Milano, basato sul sistema delle “quote”.
Questo complesso meccanismo veniva messo in moto ogni anno con la determinazione, da parte dello governo centrale, della somma totale dei tributi che erano necessari per il suo funzionamento, considerate tutte le spese ordinarie e straordinarie.  Per la ripartizione del carico, come ricorda lo storico Agnoletto, “rimanevano in vigore le regole introdotte con l’antico Censimento…per cui ci si limitava a stabilire le quote per le singole città e i singoli contadi, mentre l’ulteriore suddivisione tra i contribuenti rimaneva un compito delegato alle varie amministrazioni locali, che potevano scegliere le modalità di raccolta ricorrendo a loro discrezione all’imposizione diretta, a quella indiretta o all’indebitamento”. [11] 
Nel caso della Valsassina, La ‘Comunità di Valle’, ricevuta da Milano la “quota” di tributi a lei spettante, procedeva a sua volta, al proprio interno e a propria discrezione, al “riparto”, cioè all’individuazione della “quota” per ogni singola Comunità, aggiungendo poi le spese locali relative alle loro esigenze interne. Su questa base  ogni comune redigeva il proprio bilancio preventivo, che recava perciò al primo posto le uscite statali e locali,
queste ultime destinate per la Comunità di Valle e per la singola amministrazione locale.
Grazie i “45 Quesiti”, per gli anni 1747,48,49, è quindi  possibile conoscere le “quote”complessive che il Fisco Centrale assegnava all’intera Valsassina, compreso anche il territorio di Vendrogno e  il Monte di Varenna (composto da Perledo e altri 5 paesi sulle montagne prospicienti l’insediamento lacustre). Queste comprendevano le due tasse principali dello Stato Milanese. La più gravosa delle due è la “Diaria”, istituita nel 1707 dagli Austriaci, sostituiva un’identica tassa spagnola, il Mensuale, che serviva unicamente per finanziare tutte le spese militari, che nel bilancio della Stato di Milano potevano arrivare, come nel 1761, al ”45% delle uscite”. [12]
Alla Valsassina, per il 1747, spetta una “quota” di “Diaria” di  23.222 £, che doveva essere ripartita sulle Comunità in base agli estimi del catasto di Carlo V. Seguiva la seconda tassa chiamata “Camerale”, perché La Regia Camera era il Fisco dello Stato di Milano e per l’intera valle valeva 11.376 £. I riparti maggiori spettavano, per entrambe le tasse, a Pasturo, Monte di Varenna, Barzio e Premana. Per quanto riguarda la tassa “locale”, che serviva al funzionamento della Comunità della Valle prevista dagli Statuti della Valsassina, essa globalmente ammontava a 1.800 £, che saliranno però a ben 2.700 £ nel 1749 e nel “riparto” i maggiori contribuenti erano sempre gli stessi. Le principali voci di uscita nei bilanci comunali, di cui peraltro non sono indicate le entrate, sono proprio le due tasse statali, “Diaria” e “Camerale”, che costituiscono tra 80 e il 90% delle uscite. Le tasse “locali”, per il Comunità della Valle e quelle imposte autonomamente dal singolo comune, insieme percentualmente variavano dal 10 al 15% del totale. Per quell’anno, il 1747, è presente nel bilancio di tutte le Comunità valsassinesi anche una consistente tassa straordinaria chiamata “Sovraimposta”del 9-10% del totale, assente negli esercizi  1748-49 e necessaria per sanare il deficit del bilancio dello Stato, a conclusione della guerra di successione austriaca.
Per far fronte a tutte queste tasse (“Diaria”, “Camerale”, le  tasse “locali” e “Sovraimposta” straordinaria), le amministrazioni comunali a loro volta tassavano i contribuenti con tutta una serie di imposte dirette. La prima è il “reale”, cioè la tassazione sulla proprietà fondiaria e le case di abitazione; segue il ”personale”, la tassa sui maschi adulti di età superiore ai 14 anni e fino ai 60, (ma a Codesino e Casargo si tassano anche i bambini dai 7 ai 14 con metà della tassa degli adulti, mentre a Cassina, Cremeno e Introbio il “personale” non è addirittura usato); poi la tassa sui  fuochi”, cioè i nuclei famigliari e la tassa sugli animali. In alcuni paesi, Barzio e Cassina, c’era anche la tassa sui “foresti” o “forastieri”, persone da poco residenti nella Comunità
In ambito fiscale le
amministrazioni locali decidevano sia sul numero delle tasse che sul loro ‘peso’. In generale, nei casi in cui ci si limita a due tasse, il “reale” (la proprietà fondiarie e la casa di abitazione)  e i “fuochi “(la tassa sulla famiglia), il rapporto è 2/3 e 1/3 ma nel caso siano presenti tutte le forme di tassazione il rapporto è ½ il reale e ½  il resto (fuochi, personale e bestiame). Ma in ogni comune, come  per Casargo e Codesino, le percentuali variano, come variano i compensi per gli esattori incaricati della raccolta delle imposte, scelti attraverso una pubblica asta, il cui compenso compare nel bilancio.
Naturalmente più è alta la tassa sui “fuochi”e sul “personale”, cioè sugli individui,  più è ‘leggera’ quella sulla proprietà, a vantaggio dei possidenti  soprattutto i maggiori ed è questo che le élites locali, a capo dei singoli Comuni, cercavano di imporre alle proprie Comunità.  L’unico elemento simile  in tutti i paesi della Valsassina è l’esenzione del tributo delle donne, perché, come si afferma nella relazione introduttiva, basta “il carico delle grandi fatiche e lavorerij, che sono obbligate a fare per la mancanza delle uomini costretti a acquistarsi il vitto in paesi esteri, come è notorio”. [13]
Per l’anno 1747, Codesino presenta un bilancio separato da Casargo, che è associato con Somadino, e per questo sappiamo che il primo è il paese più ‘ricco’, almeno da punto di vista contributivo: infatti gli è assegnato un “riparto” maggiore 1.546 £, di cui 91%  è destinato ai  tributi statali (“Diaria”, “Camerale” e Sovraimposta”) e l’8% per i tributi locali (56 £) e comunali (81 £). A Casargo è assegnato un riparto inferiore di 1.251 £: l’86% della quota per i tributi statali e il 13% per i locali (49 £) e comunali (125 £). A Codesino sono presenti proprietari con estimi più alti e il numero degli animali è più ampio. Sappiamo che nelle tre Comunità sono presenti, perché tassati, 62 “fuochi” (25 Codesino e 35 a Casargo), con 134 uomini  dai 14 anni in su e 28 bambini, dai 7 anni ai 14, perché anche questi tassati. In queste comunità sono previste tasse sul “reale”, sul “personale”e sui “Fuochi”e si tassano anche gli animali per cifre molto modeste: le mucche sono gli animali  più tassati, poi vengono i cavalli e alla fine pecore e capre che valevano 1/6 di una mucca. È proprio per questo che sappiamo che nei tre paesi c’erano ben 232 bovini, 154 pecore, 289 capre e a Codesino 2 cavalli, che sono l’equivalente dei moderni trattori e un indice della presenza di terreni arabili. Dunque un patrimonio zootecnico non da poco se raffrontato a Barzio, la Comunità più ricca della valle, che poteva contare su 306 bovini e ben 26 cavalli.
A Casargo con Somadino e a Codesino sono quindi presenti tutte le tasse. A Casargo con Somadino la parte del “reale” costituisce solo il 45% mentre tutto il resto (“personale”, “fuochi” e animali) copre più del 54% della tassazione. Mentre a Codesino accade l’inverso e il reale sale al 54% mentre il rimanente al 45%. Dall’elenco dei proprietari-contribuenti delle tre comunità, nel 1747, sappiamo che erano 180 e dalla relativa tassa pagata sappiamo, tra i primi trenta considerati, che i più ricchi dal punto di vista fiscale si trovavano a Codesino, dove tra l’altro, c’è il maggior numero di animali e 2 cavalli.
L’elenco dei maggiori contribuenti  dei tre Comuni dal punto di vista fiscale in ordine crescente per tributo pagato vede al primo posto Domenico Maffeo (105 £) e a seguire Andrea Cressero ( 92 £); Santi Regazone (85 £); eredi Bartolomeo Rubino (80 £); Camillo Mafei (76 £). Tutti questi risiedono a Codesino.  Solo al 6° posto troviamo  Carlo Tenca (71 £) di Casargo, di cui è il primo contribuente e che avrà ben diversa collocazione nella lista dei proprietari secondo le stime del Nuovo Catasto. Seguono Damiano Manzolino (66 £); Pantalino Regazone (64 £) di Cosedino come Pietro Rubino (61 £); gli eredi  di Giò Antonio Pensotto (£ 60) e Giacomo Tenca (56 £); Andrea Roveda (54 £); Giò Battista Cressero (£ 51); Paolo Mutone (£ 49);  con Domenico Calvi (49 £); Antonio Mafei (49 £); Giacomo Galuzi (48 £) tutti di Casargo tranne Mafei; e poi Domenico Pensotto (46 £) di Codesino; Muro Melesi (44 £); Pietro Beri (43 £); eredi di Giò Battista Moiolo (39£), Carlo Pensotto (39£), Carlo Mafei (37 £), Domenico Roveda (35 £), Bartolomeo Manzolino (34 £);  Carlo Pensotto (34 £); Carlo Antonio Tenca (33 £); Carlo Bartolomeo Roveda (29 £); Antonio Artuso (28 £); Aurelio Beri (27 £).
Per
quanto riguarda Narro e Indovero i dati sono più frammentari. Sappiamo che i due paesi contavano 92 “fuochi” (46 a Narro a Indovero 46) e 133 uomini (dai 14 ai 60) e solo per Indovero sappiamo c’erano 14 bambini (dai 7 ai 14),  che anche in questo paese sono tassati.  Ci sono nei due paesi 117 proprietari censiti: a Indovero 63 e  a Narro 54. In quest’ultimo paese  si contano, perché tassate, 112 “bestie bovine” e tra capre e pecore si arriva a 423 capi. Quello che colpisce, in rapporto a Casargo e Codesino, è il ridotto carico fiscale assegnato al Comune:  901 £ per Narro di cui  34 £ di “locale” e 106 £ di comunale, mentre per Indovero la “quota” è di 972 £ di cui 39 £ di “locale”e comunale 73 £. La  modestia degli estimi dei proprietari contribuenti segnala in modo evidente una realtà economica molto più debole. Se il trentesimo nella lista dei contribuenti a Casargo pagava 27 £ di tassa, a Narro e Indovero il primo paga solo 9 £. Fiscalmente il più ricco, insieme al curato, è infatti Angelo Domenico Piatti (9 £) di Indovero; seguono Antonio Maria Adamolo e Giuseppe Adamolo a Narro (8 £); più giù troviamo Carlo Adamolo (7 £) a Indovero Pasetti Carlo a Narro (6 £); a Indovero Fermo Piatti  insiemo a Carlo Marazo pagano 5 £; a £ 4 di tassa troviamo un piccolo gruppo  tra cui Franco Chiodi, Eredi di Giò Battista Chiodi, Giuseppe Adamolo, Pietro Marazi di Narro e Giuseppe Marazi e Ambrogio Marazi.
La Giunta Neri, dopo la raccolta delle informazione sulle condizioni finanziarie, tributarie e demografiche  di tutto lo Stato, dovette affrontare la questione più delicata e centrale di tutto il Censimento che riguardava  la stima dei terreni. A questo fine prese la decisione di adottare come base di valutazione dei terreni, non il valore di mercato dei fondi misurati (soggetto a continue oscillazioni nel tempo), come  avveniva nel precedente estimo, ma il loro rendimento, cioè la loro capacità produttiva, seguendo in questa scelta anche  il parere di alcune delle città principali che, nel 1715, furono  interpellate sulle caratteristiche future del Nuovo Censimento. Quindi, prima  della stima finale, a tutte le Comunità venne richiesto di suddividere tutte le terre (prato, terreno arato, vigneto, risaia ecc.) presenti nei propri confini in quattro “squadre”, considerate fasce di rendita, in base alla maggiore o minore produttività, allo scopo di distinguere quelle buone dalle scadenti. Lo stimatore, dopo aver controllato che un terreno fosse nella fascia di rendita corretta, determinava la rendita lorda o “cavata” di ciascuna qualità colturale (prato, arativo, vigneto, risaia ecc.) compresa nelle singole squadre, partendo dal valore dei prodotti che annualmente si potevano ricavare, cioè il valore del fieno, grano, uva, riso ecc  che quel terreno produceva. A questo valore venivano applicate le deduzioni per il “lavorerio”, cioè il  costo del lavoro; la spesa per le sementi; le riparazioni; la manutenzione e anche una compensazione preventiva per gli infortuni naturali o “celesti” (gelo, siccità, grandine, vento ecc.). Su questo valore netto così ottenuto, si applicava poi  il 4% per calcolare il “valor capitale” dei terreni, che risultò essere sempre al
di sotto di quello di mercato.
Per ognuna delle proprietà delle 57 Pievi o Territori e delle oltre 1.400 Comunità dello Stato (compresi anche tutti i beni ecclesiastici, anche se esenti), col Nuovo Catasto si sarebbe indicato il proprietario, l'estensione, la destinazione d'uso e quindi la stima tenendo conto delle caratteristiche del territorio e della  sua redditività per poi arrivare al singolo estimo. Su queste nuove basi si introduce una radicale innovazione nel sistema fiscale che si fonda su un’esatta e completa rilevazione dei singoli fondi e una valutazione più corretta del valore di questi. Tutto il complesso apparato punta ad un riequilibrio strutturale nella distribuzione dei carichi fiscali all’interno dello Stato, per mettere fine ai privilegi e allo strapotere della nobiltà cittadina milanese. Nello stesso tempo, allargando la base imponibile, il Nuovo Catasto tende a far emergere la ricchezza dovunque essa si nasconda, dalle irrigue e ricche campagne lombarde alle sterili montagne della Valsassina.
Con gli stessi metodi e gli stessi fini, insieme a quello fondiario, sarebbe entrato in funzione anche un censimento di tutti gli immobili destinati ad abitazione e quindi tassabili, presenti su tutto il territorio. Se nel censimento di Carlo V non si faceva distinzione nella tipologia degli edifici, nel Catasto Teresiano tutte le località furono inserite in quattro diverse “classi”, a seconda del valore delle case. Nella prima c’erano le abitazioni delle principali città (Milano, Pavia , Como ecc.) con i valori più alti, mentre nel quarta c’erano le aree più periferiche e di basso valore come quelle dei paesi della Valsassina. Le case di abitazione  di ogni classe erano divise in tre “squadre”, assegnando alla prima squadra le “maggiori”, chiamate “ville”, che pagavano una tassa tripla della terza, in cui erano inserite le “infime” e nel mezzo c’erano le “mediocri”. La tassa sulla casa di abitazione era più alta in relazione alla classe in cui era inserita e alla sua tipologia.
Il censimento fu anche l’occasione per una prima accurata raccolta di dati sulla popolazione presente nelle singole Comunità dello Stato. Questo avveniva perché, al fine di  determinare  la “tassa sul personale”, a cui erano soggetti i soli maschi in età lavorativa da 14 ai 60 anni, si censirono anche  le donne, bambini fino ai quattordici anni e i vecchi, dopo i sessanta, tutti non tassati. Si contarono inoltre anche tutte le famiglie di ogni singola comunità, stimando da quante persone, maschi e femmine, erano composte. Quindi  il Censimento teresiano non solo consentirà di  ricostruire, in modo dettagliato, l’assetto proprietario, fiscale e immobiliare di  ogni parte dello Stato e quindi anche della Valsassina e di ogni singolo Comune, ma attraverso questo strumento sarà  possibile avere, per la prima volta, anche un preciso spaccato demografico e sociale delle varie Comunità che la compongono.

I risultati del Nuovo Catasto a Casargo

Nel 1760, dopo una lunga gestazione, entra definitivamente in funzione il nuovo Catasto Teresiano. Il sistema tributario sarebbe stato fondato principalmente su una nuova imposta fondiaria, assegnata al singolo proprietario, stabile e uniforme in tutto il territorio, che gravava su ogni terreno individuato da un’esatta misurazione di ogni singola particella. La tassa fondiaria  avrebbe coperto quasi il 90% delle entrate dello Stato mentre nel vecchio sistema ne copriva solo il 40-50%. Ad integrazione di questa, ci sarebbero state tre tasse: tassa “personale” (adulti maschi in età lavorativa, 14-60), dell’ordine di 7 £ a persona; la tassa sulle case abitate dai proprietari e la tassa “mercimoniale” sul commercio e l’artigianato, che si limitava a porre un tributo dell' 1,25% sul ‘giro d'affari’ annuo di commercianti e artigiani, in base a una dichiarazione giurata degli stessi soggetti tassati. Queste ultime tre tasse, nel computo della tassazione globale, avrebbero avuto un peso modesto, cioè nell’ordine del 10%, mentre nel vecchio sistema potevano valere ben oltre il 50%. Con il Nuovo Catasto la tassazione diretta sposta nettamente il suo peso dagli individui (il “personale” e i “fuochi”) alla ricchezza, cioè la terra per quei tempi, introducendo un sistema di tassazione moderno e di certo fiscalmente più equo. Spariscono per sempre le tasse sui “fuochi”e la tassa sul bestiame.
Tra gli obiettivi principali del Nuovo Catasto, oltre a quello fondamentale di far emergere la ricchezza fondiaria e allargare la base imponibile, c’è anche quello di semplificare il sistema tributario e di renderlo uniforme su tutto il territorio. Questo vale anche per la Valsassina, dove esistevano sistemi molto eterogenei decisi dalle autorità locali. Altra novità per la Valsassina è che, con il Nuovo Catasto, vengono per la prima volta misurati e tassati anche tutti i Beni Comunali dei vari paesi, il 73% dei terreni della valle ed è per questa ragione che ne conosciamo estensione e composizione. Riassunti in una Tavola generale del 1769, essi ammontano a 230.008 pertiche del valore stimato di 59.913 scudi, di cui 68.194 pertiche di prato e pascoli,  53.578 pertiche di boschi  e ben 126.961 pertiche, il 55% del totale estensione totale,  costituito da “Sassi nudi” e “Zerbo”.[14]
I Beni Comunali di “Casargo ed Uniti”, (i tre comuni sono accorpati dalla Riforma delle amministrazioni locali del 1755) si estendono per 14.449 pertiche e portano la Comunità di Casargo è al quinto posto nella lista dei maggiori proprietari della valle. Essi hanno il  valore di  4.142 scudi e sono composti  per 6.211 pertiche di pascoli e prato, mentre il bosco è ridotto a sole  913 pertiche (quasi I/7 dei pascoli), molto probabilmente per le voraci necessità di carbone dei confinanti altiforni di Premana. Comunque la quota maggiore dei Beni Comunali, 9.404 pertiche, sono “zerbidi”, cioè incolti ma “capaci in alcuni luoghi di miglioria”, terreno ideale per capre e pecore. Per Indovero e Narro i Beni Comuni assommano a 8.322 pertiche del valore di 1.983 scudi,  di cui 2.009 pertiche  di prato e pascolo, 1.536 di bosco; tra“zerbo” e “Sassi nudi” si arriva a ben 5.599 pertiche.
Completano i lavori del Catasto un accurato censimento demografico di ogni comunità, ripetuto nel corso di un decennio e si rilevano il numero delle famiglie presenti, la  loro consistenza numerica, il numero dei  maschi adulti, dei vecchi (dai 60 in su), dei bambini (fino ai 14 anni) e delle donne.
La documentazione del Catasto riguardante tutta la Valsassina, tranne la “Squadra dei Monti” in cui si trovano Indovero e Narro, con Perledo e d Esino,  è stato oggetto di studio di Enrico Baroncelli [15] ed è possibile, grazie ai dati raccolti in questo lavoro, avere uno spaccato della situazione demografica e patrimoniale complessiva di tutte le Comunità della valle. Nel 1773, ci vivono, secondo le stime del Baroncelli,  5.755 persone, di cui 3.029 donne (52%), 1.480 uomini adulti , da 14 a 60 anni (25,7%), 916 bambini (16%) e 287 con più di 60 anni (5%). I centri più popolosi sono Pasturo (800 ab.), Premana (643 ab.) e Introbio (601 ab.).
Per quanto riguarda Casargo, con Somadino e Codesino,
nel 1773, ci vivevano 60 gruppi famigliari per un totale di 305 abitanti, di cui 167 donne (55%) e 79 uomini adulti "collettabili", cioè paganti l'imposta personale, tra i quattordici e i sessanta (25,9%). ( Da notare che allora si diventava adulti a 14 anni e la vita media degli uomini era intorno ai trent'anni). Nell'elenco ci sono solo 6 anziani, over 60 (1,9%) e ben 51 bambini (16,7%). Le famiglie più diffuse erano quelle dei Beri, Calvi,  Maffei, Manzolini, Muttoni, Pensotti, Tenca e Uberti. La media dei componenti per gruppo famigliare era di 5,08 persone. Alla decina di unità arrivano solo due famiglie, quella di Bartolomeo Selva (11 persone di cui 6 donne) e Giovanni Pensotti (10 persone di cui 7 donne). Anche a Casargo, come in tutte le paesi della Valsassina, la grande maggioranza dei terreni del territorio comunale apparteneva alla Comunità stessa, che possedeva, nel 1757, più del 77% del terreno totale disponibile per un valore modesto di 4.152 scudi. Lo scarso  valore si spiega tenendo conto che i terreni comuni sono in genere pascoli, boschi, territorio montuoso e suoli non adatti all’agricoltura. A far crescere il valore della proprietà è naturalmente la presenza della terra arabile che in montagna è difficile da trovare.
Il maggior proprietario di quell'epoca a Casargo è, secondo le stime del Catasto Teresiano, Giovanni Carlo Tenca che possiede 250 pertiche per soli 613 scudi. Per capire la precisione con cui si operavano le misurazioni delle singole proprietà, di quella del Tenca sappiamo anche la tipologia  di terreni di cui era composta. In primo luogo lo “zapatorio” non arato ma lavorato con la zappa, per 87 pertiche, la parte più pregiata della proprietà; poi il prato da 2 tagli; il prato da 1 taglio di cui con noci e castagne; bosco di castagne bosco con roveri e castagne; bosco da taglio; pascolo con castagne; pascolo sassoso e selva. Il valore assegnato alla terra di questo proprietario (613 scudi)  è modesto se lo raffrontiamo con una proprietà di simile estensione, per esempio quella del dott. Agostino Sacchi di Barzio di 265 pertiche, che aveva un valore più che doppio, 1.584 scudi. Nonostante la bassa stima della proprietà, Giovanni Carlo Tenca, grazie al Nuovo Catasto, emerge come il più ricco proprietario di Casargo quando, nel 1747, era solo il sesto nella lista dei principali. Non è certo un latifondista, ma questo primato in Casargo lo pone nella ristretta cerchia dei primi 50 maggiori proprietari di tutta la Valsassina. Infatti, nella graduatoria stilata da Baroncelli di tutti i maggiori possidenti della Valsassina, per valore in scudi, Giovanni Carlo Tenca si attesta al 39°posto e per estensione del fondo in pertiche al 48°posto. La sua scalata nella classifica dei maggiori proprietari potrebbe anche trovare una spiegazione con eredità o acquisti di fondi,  avvenuti dopo le prime misurazioni catastali concluse nel 1723 e registrate con l’entrata del Nuovo Censimento, (1760) ma è tutta la graduatoria dei proprietari di Casargo del 1747 che risulta sconvolta.
Infatti, Santi Ragazzone, era il terzo maggior contribuente nel 1747, ora è il secondo proprietario di Casargo, in realtà di Codesino, con 192 pertiche e 456 scudi di valore. Il terzo proprietario è Andrea Cressero, l'amministratore interrogato nel "Processo delle Tavole" e affittuario di un monte del comune stesso, con 119 pertiche e 341 scudi di valore, che nel 1747 era il secondo contribuente. Anche Andrea Roveda ha 119 pertiche ma per un valore inferiore (252 scudi) ed era al 12°posto della lista dei contribuenti del 1747. Segue nella lista Domenico Maffei, al quinto posto, con 113 pertiche e 339 scudi, proprietario di
un'abitazione censita come “villa”, mentre era al primo posto nella lista del 1747. Come sesto proprietario troviamo un altro Maffei, Gio’ Antonio, che possiede 107 pertiche per 300 scudi di valore e che era al 17° posto nel 1747. Nella lista compare poi  Cresseri Domenico con 103 pertiche del valore di 233 scudi e a seguire tutti gli altri al di sotto delle cento pertiche fino ad arrivare all'ultimo proprietario che ne possiede solo 29.
Se il Nuovo Catasto aveva tra i suoi obiettivi principali quello di far emergere la ricchezza, in questo caso fondiaria, anche nel microcosmo di un oscuro e periferico paese di montagna, la lente di ingrandimento del fisco teresiano funziona con geometrica precisione, ridefinendo la mappa dell’assetto proprietario e quindi fiscale del suo territorio.
Lo stesso effetto di ‘emersione’ della ricchezza  avviene anche con il censimento delle case di abitazione che, con il nuovo regime, sono distinte tra le varie tipologie. Dalle stime del censimento, risulta che a  Casargo ci sono “78 case di abitazione ordinaria” di cui, però, ben 4 sono censite come “ville”e che pagavano il doppio di quelle “ordinarie” e il triplo di quelle “infime”. Una delle “ville” apparteneva proprio a Giovanni Carlo Tenca mentre le altre sono intestate a Maffei Domenico, il quinto proprietario fondiario di Casargo, a Uberti Bartolomeo e a Berlucca Giovanna.
In sintesi, una cinquantina di proprietari si spartiscono 4.271 pertiche, il 22% delle terre disponibili ma che valevano il 71% del valore di tutte le proprietà pubbliche e private. Quella di Casargo è una piccola comunità di una maggioranza di piccoli proprietari in cui un ristrettissimo numero di possidenti, che gestiscono nel contempo l'amministrazione del Comune, ha però la proprietà del bene fondamentale che è il terreno coltivabile su cui far crescere i cereali, base dell’alimentazione della popolazione.
Anche a Casargo, come del resto in tutte le Comunità della Valsassina, le proprietà della Chiesa (censite ma non tassate dal Catasto Teresiano) sono molto modeste: la parrocchia possiede solo 56 pertiche del valore di 212 scudi; più estese le proprietà di due cappelle, quella di S. Giacomo di Codesino con 96 pertiche per 144 scudi e quella cosiddetta “Galiziana” con 100 pertiche per 240 scudi di valore. Questo conferma che, a differenza di quanto accadeva nel restante territorio lombardo, dove un quarto dell'intero Stato milanese erano nelle mani della proprietà ecclesiastiche, la Chiesa in Valsassina, come scrive il Baroncelli[16], era "sostanzialmente povera di una povertà che potremmo definire quasi francescana", perché i beni della Chiesa in tutta la valle arrivavano solo il 3% del totale delle proprietà totale, ben lontano dal 30-40 %  che i beni fondiari della Chiesa raggiungevano nell’alta e soprattutto bassa pianura lombarda. [17]
La situazione  economica e proprietaria di "Narro et Indovero", che nel Catasto era considerata un’unica  comunità a sé stante da Casargo e compresa in un’altra squadra, la “Squadra dei Monti” con gli altri paesi della Muggiasca quali  Parlasco, Perledo ed Esino, risulta, rispetto alle stime del 1747, meno ‘povera’ ma con valori proprietari più bassi di quelli di Casargo.
 A Narro e Indovero ci sono 85 famiglie con una popolazione complessiva più numerosa di Casargo e nel 1779 era costituita da 344 persone
(salite nel 1784 a 365). La popolazione di questi due paesi è composta da ben 197 donne (57%) e solo 88 maschi adulti (25,5%). Solo 9 persone hanno più 60 anni  (2,6%) e 48 bambini con meno di 14 anni (13,9%). In queste comunità 3 famiglie (Pasetti Barlomeo, Adamoli Pietro e Piatti Angelo) superano i 9 componenti e solo una ha 8 componenti (Pasquino Carlo). Per Indovero con Narro i possessori di case sono 61 e non sono censite “ville”.
Nel 1757, la proprietà comunale in questa realtà copre il 73%  della proprietà totale e cioè  8.322 pertiche per un valore di 1.983 scudi. Oltre alla proprietà della Chiesa (tra parrocchia, cappellanie, prepositura di Bellano e legati vari arriva a 272 pertiche, il 2% del totale), i maggiori proprietari, tra i 190 censiti, sono Giò Adamoli (cognome più diffuso insieme a Arrigoni, Piatti e Pasquino) con 80 pertiche del valore di 153 scudi; Marazzi Pietro con con 65 pertiche che valgono 105 scudi e un altro Adamoli, in questo caso Carlo, con 61 pertiche del valore di 133 scudi e via via a scendere con proprietà sempre più piccole e polverizzate. Sappiamo che a Narro c’è un’osteria e Indovero un’osteria e due mulini e sono state censite nei vari alpeggi  127 "cassine": a Indovero se ne contano 64 e a Narro 63, perlopiù con il "tetto in paglia utilizzate per l'allevamento domestico di pecore, capre e bovini. [18]
Con l’entrata in vigore del Nuovo Catasto sono disponibili i primi bilanci comunali dei paesi della Valsassina, non più firmati dal sindaco, come in passato, ma certificati dalla firma del Cancelliere nominato dal Governo Centrale, sotto il cui tutela e controllo è passata tutta l’attività amministrativa delle Comunità locali, come richiede la riforma dell’amministrazione del 1755 e del 1756 (“Riforma al governo della Valsassina”). I primi bilanci disponibili dei Comuni della Valsassina riguardano l’anno 1773 e sono redatti e sottoscritti dal “Regio Delegato della Valsassina”, Giorgio Antonio  Ferretti, a cui sono affidate tutte le 27 Comunità della valle. Essi  seguono tutti un medesimo schema e sono denominati come “Inventario, ossia stato attivo e passivo del Comune”. [19]
Attraverso questi documenti è possibile un confronto con i bilanci del 1747 al fine di valutare come è cambiato il peso della tassazione sui Comuni prima e dopo l’introduzione del Nuovo Catasto e el nuovo sistema tributario a questo collegato. Nel bilancio del 1773 di Casargo con Codesino e Somadino, si  dettagliano nello “stato passivo” le uscite che sono costituite da:  il “Carico Prediale”, cioè la principale  tassa, quella fondiaria, per  1.449 £; metà della la tassa sul “personale”pagata da 67 “Teste” a 5,5 l’una (un valore applicato in tutti i paesi della valle), per  136 £ e l’importo della tassa sulla casa (7,5 £). Nel bilancio non sono presenti le tasse locali, perché, secondo le nuove regole,  dovevano essere pagate utilizzando le rendite dei Beni Comunali, la metà delle altre tasse e se necessario con sovraimposte. [20]  Sotto la voce di “Spese Diverse Solite” viene indicata un’altra uscita, e per la Valsassina costituisce una novità, quella relativa ai “Carichi spettanti a Fondi della Comunità”, cioè la nuova tassa, introdotta dal Catasto Teresiano, per i Beni Comunali, che per Casargo assomma a  428 £.
 Nel 1747, tra Codesino, che presentava allora un bilancio separato e Casargo con Somadino, la cifra delle imposte maggiori pagate in quella data dai tre paesi, tra “Diaria” e “Camerale, e non conteggiando la “Sovraimposta” (una tantum non presente nel 1748-49), assommava a 2.218 £.  Mentre le tasse pagate nel 1773,  sommando le quattro tasse (“Prediale”, “personale”, la tassa per la case e la nuova tassa sui Beni Comunali) arrivavano alla somma di 2.020 £ per i tre paesi insieme,  198 £ in meno rispetto a quanto pagato nel 1747, una cifra che sarebbe ancora più consistente se si dovesse aggiornarla con l’inflazione di più di un ventennio. Sempre nel bilancio del 1773, tra  le uscite sono indicati anche dettagliatamente i “Salari annui fissi” per Cancelliere (funzionario governativo ma a carico dei Comuni), sindaco ed esattori e le  Spese straordinarie” (alle strade, alle cassine di monti, ecc.). Nello “stato attivo” sono registrati solo gli affitti dei pascoli , con scadenza nel 1777 e della durata di nove anni, quello di Ombrega (482 £)  e quello di Sasso D’Arotto a Domenico Cresserio di Codesino (255 £), per la somma totale di 737 £ . Tra le entrate figurano anche la metà della tassa “personale” e della tassa sulla casa, trattenute dal Comune per le proprie spese.
Per quanto riguarda “l’Inventario, ossia stato attivo e passivo del Comune” di “Narro con Indovero”, sappiamo che, per il 1773, l’uscita per il ”Carico Prediale” (tassa fondiaria) ammonta in 770 £;  il “personale” calcolato su 79 “Teste” a 5,5 £ è di  139 £, con  12 £ per le case e la tassa sui “Fondi Comunali” assomma a 206 £. L’insieme delle due tasse principali pagate nel 1747 dai due comuni (allora separati), “Diaria” e “Camerale”, e non conteggiando la “Sovraimposta” (una tantum non presente nel 1748-49) arrivava a 1.424 £. Nel 1773, ventisei anni dopo, il carico tributario di “Narro con Indovero” è di 1.127 £, cioè 297 £ in meno rispetto al 1747, senza contare, anche in questo caso, l’incremento dovuto all’inflazione tra le due date. Confrontando le due piccole realtà locali, Casargo con Codesino e Somadino e Narro con Indovero, si può notare come la diminuzione della tassazione è maggiore laddove le Comunità hanno condizioni economiche più precarie.
Nel microcosmo valsassinese, anche con la nuova tassazione dei Beni Comunali introdotta dal Catasto Teresiano, per scongiurare la quale tanto si era prodigato il Sindaco della valle Michelangelo Manzoni,  queste cifre dimostrano come il nuovo sistema di esazione non aveva come obiettivo un aumento del peso tributario, come tutti temevano e si aspettavano, ma al contrario intendeva  introdurre un alleggerimento del carico fiscale per tutti i contribuenti e un maggiore equilibrio nella distribuzione dei carichi a beneficio di tutto lo Stato.

I Beni Comunali

Nella stessa cartella dove si trovano i 27 bilanci dei Comuni della Valsassina del 1773, si trova anche una Tavola riassuntiva dedicata ai Beni comunali della valle, datata 1775. [21] Questa tabella permette di capire come veniva definito” l’importo dei carichi sopra l’estimo dei fondi comunali”per ogni comune. Infatti, nella colonna seguente a quella in cui sono registrati gli importi, viene elencato per ogni comune “l’annuo reddito dei fondi comunali per l’uso dei pascoli e dei boschi e il prodotto dei tagli dei boschi maturi, lasciando chiaramente capire che l’importo della tassa sui Beni Comunali, introdotta col Nuovo Catasto, era stimata sì in relazione all’estensione e alla composizione dei Beni, ma anche e soprattutto in proporzione ai redditi prodotti dai Beni stessi, attraverso gli affitti dei pascoli e i tagli dei boschi. Questo spiega il valore più alto della tassa per i Beni Comunali pagata da Casargo, rispetto per esempio a Narro, perché il primo aveva Beni più estesi ma poteva contare anche su due affitti di pascoli  e continui tagli di boschi, per la vicinanza dell’area metallurgica di Premana. Questo aspetto è ancora più evidente se si analizza il bilancio di Premana, la cui tassa per i Beni Comunali arriva a 918 £. Come si può osservare nello “stato attivo” del suo  bilancio,  Premana incassa dagli affitti dei pascoli una cifra elevata, 2.009 £. Nel caso in cui non ci siano ricavi dai Beni Comunali, la tassa è moderata. Per esempio, Margno, Cortenova e Bindo che, in quell’anno, non hanno redditi da pascoli e boschi  pagano l’uno 84 £, l’altro 11 £ e Bindo 27 £. Sempre in questa tabella è possibile conoscere l’importo generale della tassazione sui Beni comunali per l’intera Valsassina  che è di 5.573 £, oltre il 20% del reddito di tutti i Beni Comunali di tutta la valle che è di 26.872 £. [22]
La tassazione dei Beni Comunali  mette in luce l’importanza che questi hanno nell'economia del territorio di montagna, in un ambiente caratterizzato da cronica scarsità di risorse. Questi beni, molto estesi in montagna tanto da costituire il 60-70% del territorio comunale, sopravvivevano in minima parte, all’epoca del Catasto,  nella zona collinare ( il 9% del territorio) ed erano già completamente scomparsi in pianura (meno del 1%) [23]. Essi garantiscono alla popolazione di paesi come Casargo, Indovero e Narro dei diritti  fondamentali legati spesso alla stessa sopravvivenza, quali quello del pascolo che consentiva l’allevamento anche di pochi capi; la raccolta della legna per riscaldamento e per uso edilizio; la raccolta del fieno per gli animali; la raccolta di castagne, che hanno un'importanza fondamentale nella alimentazione della gente di montagna. "I comunisti", come sono definiti nei testi del Catasto, possono contare su queste risorse comuni soprattutto a Indovero e Narro, collocati sul ripido versante della montagna e dove la proprietà risulta più parcellizzata e meno produttiva. Nell'economia a volte di pura sussistenza, soprattutto in alta Valsassina, i Beni Comunali sono, "un vero pilastro dell'economia comunitaria", un "ammortizzatore sociale per le classi più povere" e costituivano la vera "ricchezza nascosta" delle Comunità, importante soprattutto per la sopravvivenza delle famiglie più povere. [24]
In questo periodo, anche per la loro tassazione, si assiste ad una maggiore pressione da parte delle Comunità su questi Beni che prende le forme di una sempre più estesa espansione dei pascoli. Sono del resto le stesse Comunità, attraverso le élites dominanti che le governano, ad essere interessate all’espansione dei pascoli che, in Valsassina, ammontavano a  ben 44.212 pertiche. Questa espansione è realizzata anche con la selvaggia deforestazione, spesso orchestrata dai maggiori imprenditori del ferro, che disponevano di una libertà piena nell’avvantaggiarsi delle risorse comunali. A questo si aggiunge
va la piaga dei tagli abusivi, quasi sempre destinati alla produzione di carbone da rivendere agli stessi proprietari di forni, illecite usurpazioni  e incendi dolosi. L’aumento dell’estensione dei pascoli derivava anche da un crescente numero dei capi di bestiame che li occupavano nei mesi estivi. Nel 1782, da un'indagine commissionata ad Alberto Besozzi dall’amministrazione austriaca, sui pascoli affittati erano presenti 1.323 bovini e 1.080 pecore, mentre in quelli comuni 5.800 bovini, 4.000 pecore e 6.500 capre. Per tutte le Comunità i proventi ricavati dall’affitto stagionale costituivano un’entrata certa e sicura e nel, 1782, il ricavo di tutti gli affitti della valle valeva la cifra di  12.685 £. [25] A favorire l’allargamento dei pascoli,  contribuiva anche la forte richiesta dei bergamini, pastori-imprenditori,  in gran parte valsassinesi,  che transumavano con gli animali sulle montagne della Valsassina dalla pianura all’inizio dell’estate per farvi ritorno a settembre. Al contrario degli affitti dei pascoli , con gli affitti dei boschi da taglio, a cadenza trentennale e che potevano anche durare decine di anni  a vantaggio degli affittuari, le Comunità introitavano cifre irrisorie, almeno fino a quando l’amministrazione austriaca impose un “Regolamento per i boschi comunali della Valsassina” [26], che normava rigidamente questo importante settore dei Beni Comunali, spesso oggetto di usurpazioni e scriteriati utilizzi. E’per questa ragione, grazie alle tabelle elaborate dall’allora Cancelliere, Vincenzo Bellati, che sappiamo, come stabiliva il “Regolamento”, a quanto ammontava la “Quantità dei boschi occorrenti per il giornale consumo de poveri della Comunità” (400 pertiche, quasi la metà di tutti i boschi)  e quale era il “totale ricavo dell’ultimo taglio dei boschi” del Comune di Casargo per l’anno 1782: 6.521 £. In un’altra tabella allegata, è possibile  conoscere anche la “conversione del ricavo dell’ultimo taglio de boschi“, cioè come il Comune aveva speso questa somma incassata in quell’anno: 685 £ per la”ristaurazione del tetto e del campanile della parrochiale”; 59 £ per la “ristaurazione delle cassine dei monti”; 5.527 £ “per scarico sopra  imposta comunale e tassa personale” e le altre 250 £ per non precisate “tante non ancora esatte dal compratore”. [27]

Deficit cerealicolo  ed  emigrazione

La presenza di grandi proprietà comunali, notevolmente ridotte con gli affitti a privati, già molto prima dell’introduzione del Nuovo Catasto, come nel caso di Casargo, non potevano di certo però sanare il problema  cruciale nelle zone di montagna e cioè quello dell’autosufficienza alimentare e in primo luogo quello della produzione di cereali. La povertà strutturale, data dalla scarsità di terreno coltivabile di questi territori di montagna, pone alle popolazione dei limiti insormontabili, derivati dalla stessa orografia ma aggravati dalla estrema frammentazione della proprietà, conseguenza del sistema ereditario  e dalle basse rese dei raccolti, spesso minacciati da eventi climatici sfavorevoli.
Per i periti del Catasto, a Casargo,  Narro e Indovero, la terra migliore è classificata non "aratorio" ma "zapatorio", cioè coltivata a mano come un orto senza l'uso dell'aratro; essa è scarsa e concentrata nelle mani di pochissimi proprietari che la coltivano senza aiuti esterni. A Casargo il principale proprietario, Carlo Tenca, ne possiede meno di cento pertiche, ma la stragrande maggioranza ne ha pochissima. Sappiamo che si coltiva soprattutto segale e grani "minuti", cioè quelli a semina primaverile come il "formentone", cioè il grano saraceno. Le rese sono molto basse e il dato è anche confermato in una descrizione contenuta in un "Sommario del comune di Narro" allegato al censimento degli immobili  da cui sappiamo che " il personale sovrabonda il bisogno del lavorerio dei terreni" e che "si seminano ogni anno in tutto 25 stare di segale e dodici stare di minuti. Si raccoglieranno in tutto stare 70 di segale e stare 48 di minuti, compresa la semenza" [28]. Questo vuol dire che per un seme di segale, tolta la semente, se ne raccolgono solo due e per il grano saraceno tre. 
E’ questa agricoltura povera e marginale che costringe buona parte degli uomini ad emigrare, stagionalmente o per lunghi periodi, e col ricavo del proprio lavoro sostentare le famiglie. La loro assenza, però, lasciava tutto il massacrante lavoro agro-pastorale sulle spalle delle donne, su cui gravava anche la cura dei bambini e anziani oltre all’accudimento degli animali (mucche, capre e pecore), vitali per il sostentamento dei nuclei famigliari. E’per questo che la popolazione della valle è composta da una grande maggioranza di donne.
 Nel 1773, in tutti i paesi  della Valsassina le donne sono la maggioranza tranne a Pasturo, il paese a maggiore vocazione agricola, dove sono il 49%. Sono però il 52% della popolazione a Barzio (600 abitanti) contro i 28% degli uomini; stessa percentuale a Introbio, dove gli uomini sono  solo al 19%. A Primaluna le donne sono il 56 % della popolazione come a Cortenova. A Casargo su 305 abitanti  il 55 % sono donne e gli uomini 79, il 25%; a Narro e Indovero le donne sono 197, il 57% e con solo 88 maschi adulti, il 25,5%;  a Premana la popolazione femminile arriva quasi al 60% della popolazione e gli uomini  sono 142, solo il 21% della popolazione totale . Donne, bambini e qualche anziano formano la parte preponderante di tutte le  Comunità della valle: sono l’80% della popolazione di Introbio; il 78% di quella di Premana; il 74% di quella di Narro e Indovero; il 73 % quella di Casargo.
Come avviene in tutto l’arco alpino, nella popolazione della Valsassina, i grandi ‘assenti’ sono gli uomini. Se si ipotizza che in una Comunità il numero degli uomini generalmente eguagli il numero delle donne sul totale della popolazione, esclusi vecchi e bambini, a Introbio mancano 101 uomini adulti per arrivare alla parità, il 17% della popolazione totale; a Barzio mancano 74 uomini per eguagliare il numero delle donne, 12% della popolazione totale; a Cortenova mancano 65 uomini, il 16% della popolazione; a Premana mancano ben 124 uomini, il 19%; a Casargo mancano 45 uomini, 15% della popolazione; a Narro con Indovero mancano 56 uomini  il 16% della popolazione di entrambi i paesi.
Se la popolazione della Valsassina, nell’arco degli  1751-1773, era stimata superiore alle 10.000 unità[29] , l’emigrazione, calcolando una media del 15 % di ‘assenti’ sulla popolazione totale, potrebbe attestarsi ben oltre le 1.500 unità e non dovrebbe essere percentualmente molto diversa da quella calcolata da Raul Merzario per l’emigrazione nella montagna comasca, che interessava almeno un quinto della popolazione. [30] Meno terra coltivabile è presente nella Comunità e più mancano uomini, che devono trovare altrove la fonte di sostentamento per la propria famiglia. L’emigrazione è
un'antica piaga della Valsassina, come del resto nell’intero arco alpino. Senza l’emigrazione la sussistenza di una buona parte della popolazione  dei paesi di montagna come Casargo, Narro e Indovero (ma lo stesso discorso vale anche per tutte le Comunità della Valsassina) non sarebbe possibile.  Solo gli uomini emigrati sono in grado di  “monetizzare l’economia famigliare” [31], come afferma lo storico Raul Merzario,  facendo  arrivare alle famiglie il denaro necessario per i tributi ma, soprattutto, per procurarsi altri cereali indispensabili per vivere, quando quelli prodotti con i magri raccolti su terreni di montagna finiscono dopo pochi mesi. La popolazione poteva contare per sopravvivere in montagna sulle risorse dei Beni Comuni, con i vantaggi che questi comportavano, ma questo certamente non bastava a colmare il deficit cerealicolo, tipico di questa area. Occorreva il grano (o il meno costoso mais) proveniente dalla pianura e per questo erano necessarie le rimesse di chi lavorava altrove. Occorrevano cereali per sopravvivere e, con una dieta un po’ più varia, poter scampare anche alla diffusione di malattie tremende come la pellagra, che era già presente alla fine del secolo XVIII e imperverserà nel secolo successivo, in particolare in quelle aree (collina e la pianura)  da cui provenivano proprio quei cereali acquistati dalle popolazione di montagna. La sopravvivenza di chi rimaneva era quindi dipendente dal particolare rapporto di scambio che legava la montagna e la pianura, dove l’una forniva grani e l’altra, come per esempio la Valsassina, forniva ferro, legna, prodotti caseari ma anche e soprattutto uomini, come del resto tutti i distretti di montagna che da sempre sono appunto  una fabbrica di uomini”, per citare un saggio di Raul Merzario. [32]
Se sull’entità numerica del flusso migratorio della Valsassina sono possibili solo ipotesi, non è facile nemmeno individuare le direzioni  di questa costante ‘emorragia’ di uomini.  Solo il caso di Premana e la sua peculiare emigrazione di fabbri verso Venezia, è stata più volte indagata ed è per questo che si sa che non fu soltanto premanese, ma che interessò anche altre Comunità valsassinesi. Di tutti coloro che lavoravano a Venezia “52 fabbri provenivano da altre comunità della squadra di Chignolo”, la stessa della Val Casargo e “31 dalla squadra dei Monti”, a cui appartenevano Narro e Indovero. [33] La confinante Repubblica Veneta doveva essere destinazione privilegiata del flusso migratorio valsassinese,  perché la Serenissima che non solo favoriva il trasferimento di manodopera nel proprio territorio ma cercava di trattenere coloro che vi si trasferivano. E certamente tra le mete non c’era solo la capitale, ma anche i distretti metallurgici del Bergamasco e del Bresciano.
Per Casargo, in particolare, si ha notizia solo di pochi casi che
testimoniano questo fenomeno. L’uno riguarda il caso della costruzione del forte di Fuentes  e del castello e delle fortificazioni di Lecco, ricordato dall’Arrigoni [34], dove sono presenti maestranze provenienti dalla Valsassina e dalla val Casargo in particolare.
Un altro caso riguarda delle persone emigrate in Piemonte. Sappiamo  che la  chiesa di San Bernardino, nel 1658,  viene ingrandita, anche con le rimesse di alcuni emigrati di Casargo nel torinese. Sopra il portale in pietra, è ancora presente una lapide del 1658, che ricorda  quei lavori e il finanziatore.  Questi Manzolini di Casargo fecero anche costruire un altare nella navata destra e donarono un dipinto che è quello di maggior pregio della chiesa, una pala ad olio su tela del Seicento che rappresenta La Madonna tra angeli e Ss Francesco, Carlo, Simone Stock e Bernardino da Siena, di area piemontese.
Spesso il duplicato del pagamento dell’imposta personale per chi viveva altrove ( questo accadeva anche per i bergamini, in gran parte valsassinesi, che si trasferivano all’interno dello Stato) o il pagamento della tassa sulla casa non più abitata, portano alla luce in modo occasionale i casi di emigrazione, come nei casi  di un certo Adamolo e Chiodi  di Narro, che in un appunto venivano dichiarati come abitanti da tempo a Pavia. [35]
 Il problema dell’emigrazione impensieriva l’amministrazione austriaca per il pericolo dello spopolamento che comportava e cercò di affrontarlo, puntando alla diminuzione del carico fiscale di chi viveva in queste aree. In una relazione del 1789, presa in esame dalla Dattero [36], un funzionario dell’amministrazione austriaca per la provincia di Como, Giuseppe Pellegrini, esaminando le particolari condizioni dell’area alpina, esprime un punto di vista diverso sul fenomeno, evidenziando, in controtendenza con l’opinione più diffusa, che l’emigrazione nelle zone di montagna è “di genere non dannoso ma utile allo Stato”, perché ”nella massima parte non è vera emigrazione”, cioè distacco definitivo dalla comunità d’origine. Quelli che lasciano queste zone per lavorare in “Piemonte, nel Bresciano, in Venezia e in alcune parti della Toscana” ritornano al proprio paese di nascita per occuparsi delle loro proprietà e acquistarne delle altre, perché “continue sono le contrattazioni di fondi”. Considerando, molto pragmaticamente, che “quello che è riferibile alla natura del suolo non può sicuramente correggersi”, nell’ analisi sottolinea che ”le somme cospicue di denaro di questi emigranti” costituiscono “un vantaggio pubblico per lo Stato”e quindi il Pellegrini suggerisce alle autorità centrali che, per tenere sotto controllo il fenomeno migratorio, occorra proseguire sulla strada nella diminuzione delle imposte locali.
Quello che appare probabile è che la emigrazione valsassinese, nelle sua complessa varietà, sia perlopiù temporanea o stagionale che definitiva e sia non di poveri diseredati al limite della pura sussistenza, ma formata anche, e forse soprattutto, “di persone esperte nel loro mestiere che vanno ad espletarlo dove più occorre e dove è necessaria la loro abilità” [37]. Quindi un genere di emigrazione in grado di generare non solo flussi costanti di denaro per poter garantire la sopravvivenza delle famiglie stabili, ma anche per piccoli investimenti sul territorio con il quale si mantenevano costanti rapporti.


Conclusioni

La pubblicazione dei risultati globali del Catasto Teresiano mettono in evidenza come questo complesso strumento tributario sia riuscito, all’interno dello Stato, a sanare le profonde diseguaglianze tra i vari territori e ad equilibrare in modo più equo il carico fiscale tra le classi sociali. Mettendo a confronto i dati del complesso totale delle imposte nel triennio 1747-48-49 con quelle del 1763, si nota in primo luogo che  il gettito complessivo delle tre imposte (fondiaria, personale e mercimoniale) era diminuito del 16,5 %, ma che soprattutto era cambiata la distribuzione dell’onere: “Salta agli occhi il forte aumento dell’aliquota di Milano e provincia (da poco più di due quinti a quasi la metà del totale) , a beneficio di Cremona e in minor misura di Como e Lodi: una correzione che giustifica le secolari accuse rivolte dalle città minori alla dominante[38]. Altro dato importante è che la percentuale complessiva delle due tasse non fondiarie, e cioè quella “personale” (uomini da 14 a 60 anni) e “mercimoniale” (artigianato e commercio), che passò dal “19,3%  al 10,5% del carico totale[39]. In particolare la tassa “personale” diminuì di più del 50% (prima arrivava in alcuni casi anche a 60 £ per uomo adulto [40]) e la “mercimoniale” del 43%, a beneficio di tutti gli abitanti e di artigiani e commercianti, realizzando un riequilibrio del carico fiscale anche tra i vari ceti sociali.
Per quanto riguarda la Valsassina, dai dati riportati in una relazione del  1774 dal Magistrato Fiscale di Milano,  si ricava che “in passato con l’esenzione di boschi e pascoli, la valle contribuiva  33.000 £ per le imposte dovute allo stato, mentre col nuovo ordinamento ne versava 30.805 £, quindi non vi era stato alcun aggravio, bensì un alleggerimento del carico imposto”.[41] Questo “alleggerimento” risulta confermato anche dal  sensibile calo del carico fiscale evidenziato nel confronto tra i bilanci del 1747 e quelli del 1773 del dopo  Catasto, quando i Comuni potevano contare sulle entrate costituite dalla metà  delle tre tasse, quella “personale”, “mercimoniale”, e delle case di abitazione.
Se il carico tributario della Valsassina a favore dello Stato Centrale di Milano era diminuito, non sappiamo se le imposte gestite dalle amministrazioni locali, abbiano seguito nel tempo lo stesso destino. Quello che appare certo è che il governo austriaco, dopo il 1760, riserva alla Valsassina ancora un trattamento privilegiato da un punto di vista fiscale, sempre in considerazione della posizione di confine, per le sue miniere strategiche e per le attenzioni della vicina Repubblica Veneta. E questo avviene nonostante  i generali “disordini” e “irregolarità” documentati da una commissione d’inchiesta, nel 1768,[42] in tutte le amministrazioni locali della valle e soprattutto in quella centrale, con il coinvolgimento anche dello stesso Sindaco Generale, per esborsi a suo favore senza alcuna documentazione. 
La più alta autorità politica della Valsassina, Massimiliano Manzoni, figlio di Michelangelo da cui aveva ereditato la carica di Sindaco vitalizio, proprio in quegli anni, forse anche per compensare il peso della  tassazione sui Beni Comunali, si lancia in numerose richieste per nuovi esenzioni in favore della valle, documentate dalla Dattero[43] e che trovano sempre una benevola accoglienza da parte
del governo asburgico. Nel 1758, si richiede la riduzione della tassa “mercimoniale” e di quella “personale”; nel 1766 l’abolizione della Tariffa Generale dei Dazi in Valsassina, introdotta un anno prima; 1774 la cancellazione dei dazi sul vino venduto al minuto, il pane e la carne, incamerati prima della sua morte dal vecchio feudatario. Tutte queste istanze ebbero esito positivo ma il costo fu molto elevato. Quella sul ribasso della tassa del “personale” ammontò  a ben 16.500 £.  Naturalmente  le spese sostenute vennero ripartite su tutte le Comunità della valle con un aumento proprio della tassa sul “personale”, di cui si era ottenuto il dimezzamento con il ricorso. Tutte queste richieste, al di là
dei supposti vantaggi che arrecavano alla valle, erano in realtà “un elemento fondamentale per il mantenimento del potere dei Manzoni” e volte a confermare e a rafforzare il loro ruolo non solo come rappresentanti della Comunità valsassinese, ma come “ mediatori  capaci di contrattare con le istituzioni centrali e convincerle delle ragioni che militavano in favore della valle, in primo luogo la sua povertà”. [44]
A partire dal 1782, il clima politico all’interno dello Stato cambia drasticamente. Il governo austriaco decreta l’abolizione di tutte le esenzioni concesse in passato e nel 1786, in nome della centralizzazione e  dell’uniformità dello stato, volute da Giuseppe II, erede di Maria Teresa morta nel 1780, venne istituito un nuovo assetto amministrativo della “Lombardia austriaca”. L’enorme provincia di Milano fu smembrata e furono create 8 nuove circoscrizioni territoriali. La Valsassina, in posizione eccentrica e distante dalla capitale, fu aggregata alla neonata provincia di Como, retta da un Intendente governativo che aveva un forte potere di controllo sulle amministrazioni locali. L’autonomia della valle e i suoi privilegi stavano per finire definitivamente, ma anche il potere incontrastato dei Manzoni sulla Valsassina aveva ormai i giorni contati.

Note

[1] C. Capra, La Lombardia austriaca nell’età delle riforme, Torino,1987, pag. 199

[2] A.Dattero, La famiglia Manzoni e la Valsassina, Milano, 1997, pag 116.

[3] ASM, Processi  sulle  Tavole, cart.3356, 17 settembre 1722, deposizione di Francesco Ruberti di Casargo e Cresseri Andrea.

[4] ASM, Processi sulle Tavole, cart.3356.

[5] Raul Merzario, Il capitalismo nelle montagne, Bologna, 1989.

[6] Enrico Baroncelli, "La Valle del Ferro", pag 88, Lecco, 1994, pagg. 83-88.

[7] ASM, Processi per le tavole, cart.3356, 17 settembre. 1722, deposizione di Margno e Premana.

[8] Enrico Baroncelli, "La Valle del Ferro",  Lecco, 1994, pag. 74.

[9] S. Agnoletto, Lo Stato di Milano al principio del Settecento, Milano, 2000, pag. 304

[10] ASM, Censo,p.a, cart. 2155.

[11] S. Agnoletto, Lo Stato di Milano al principio del Settecento, Milano, 2000, pag. 254 e Carlo Capra, La Lombardia     

austriaca nell’età delle Riforme, Torino, 1987, pag.298.

[12] Ibidem, pag.132.

[13] ASM, Catasto cart. 3031, Risposte ai 45 quesiti, 1751.

[14] ASM,  Atti di Governo, Censo, p.a., cart. 2154.

[15] Enrico Baroncelli, "La Valle del Ferro", Lecco, 1994, Capitolo II,  pagg. 54-130.

[16] Ibidem, pag. 102.

[17] Ibidem, pag. 120.

[18] "Sommario del Catastino" di Narro et Indovero, in ASM, Censo p.a. cart. 1627.

[19] ASM, Atti di Governo, Censo p.a., cart.2154.

[20] Carlo Capra, La Lombardia austriaca  nell’età delle Riforme, Torino, 1987, pag 197

[21] ASM,  Atti di Governo, Censo p.a., cart.2154.

[22] Ibidem

[23] S. Zaninelli, Proprietà fondiaria della Lombardia dal Catasto Teresiano a Napoleone, Milano,1986, pag. 56.

[24] E. Baroncelli, La valle del ferro, Lecco, 1994, pag.72.

[25] ASM, Censo, p.a. cart. 2158.

[26] Ibidem.

[27] Ibidem.

[28]  ASM,  Censo, Narro e Indovero, p.a. cartella 1627.

[29] ASM, Catasto cart.3031 e A.S.M. Catasto, Statistica delle anime del Ducato, cart.1655.

[30] Raul Merzario, Il capitalismo nelle montagne, Bologna ,1989, pag. 45.

[31] Raul Merzario, Il fuoco acceso, Roma, 2005, pag. 10.

[32] Raul Merzario, Una fabbrica di uomini. Emigrazione della montagna comasca 1600-1750, Roma, 1984, pag. 162.

[33] A. Dattero, La famiglia Manzoni in Valsassina, Milano, 1997, pag. 68.

[34] Giuseppe Arrigoni, Notizie statistiche della Valsassina, pag. 156. 

[35] ASM, Censo,p.a. cart. 2158.

[36] A. Dattero, La famiglia Manzoni in Valsassina, Milano, 1997, pag.188-189.

[37] E. Baroncelli, Il mito della povertà in Valsassina, Lecco, 1993, pag. 20.

[38] C. Capra, Alcuni aspetti del  riordinamento tributario in Lombardia nell’Età Teresiana, Roma,  1980, pag. 7.

[39] Ibidem, pag. 8.

[40] C.Capra, La Lombardia austriaca nell’età delle Riforme, Torino, 1987, pag.18.

[41] A.Dattero, La famiglia Manzoni e la Valsassina, Milano, pag. 180.

[42] “Diario per la Commissione di Valsassina”, ASM, Censo, p.a., 2153.

[43] A.Dattero, La famiglia Manzoni e la Valsassina, Milano, pag.150-156.

[44] Ibidem, pag. 157.