Dedicato a Enrico Baroncelli
LA VALSASSINA E
CASARGO AI TEMPI DEL CATASTO TERESIANO
A conclusione della Guerra di successione Spagnola (1700-1714), l'Impero
Austriaco si sostituisce alla Spagna nel predominio sull'Italia e sul Ducato di
Milano in particolare. Dal 1714 cominciò la dominazione austriaca in Italia che
durerà 150 anni, salvo il periodo napoleonico, e cioè fino all'anno 1866.
La “Lombardia austriaca” dei primi
del Settecento aveva un'estensione molto inferiore al dominio
visconteo-sforzesco e non raggiungeva i confini della regione attuale. Infatti,
non appartenevano più allo Stato Milanese, dalla metà del quattrocento (pace di
Lodi 1454), le provincie di Bergamo e Brescia, cadute sotto il controllo
della Repubblica Veneta, dopo un aspro conflitto tra gli Sforza e la
Serenissima che ebbe per teatro anche la Valsassina. Mancavano la Valtellina,
sotto i Grigioni Svizzeri dal 1512; Alessandria, l'Oltrepò Pavese e
la Lomellina ceduti al Regno Sabaudo nella prima metà del Settecento. Il
territorio era quindi compreso tra l’Adda e il Ticino, confinando a Nord con La
Valtellina e terminava a sud con le campagne del Lodigiano, con il Po come
confine meridionale. Il Ducato di Mantova sarà accorpato definitivamente solo
nel 1745 e dotato però di forti autonomie rispetto a Milano.
Dopo un venticinquennio di guerre quasi continue, lo Stato milanese ne usciva
economicamente e finanziariamente prostrato. Alle conseguenze disastrose dei
conflitti armati, si aggiunsero i pesanti effetti dell’accresciuto prelievo
fiscale dell'amministrazione spagnola, che non
era stata in grado di gestire un’inarrestabile stagnazione economica. La nuova
dominazione austriaca si rese subito conto che senza l’introduzione di radicali
cambiamenti e di una profonda e complessiva riorganizzazione interna dello
Stato, quest’ultimo sarebbe andato incontro ad un sicuro fallimento e solo
delle incisive riforme dell’apparato finanziario, fiscale e amministrativo
avrebbero potuto assicurarne la sopravvivenza.
Gli interventi, realizzati con un forte accentramento decisionale del governo centrale
contro particolarismi, autonomie e privilegi locali, riguardarono il riordino
del sistema degli appalti delle imposte, la sistemazione del debito dello Stato,
la riorganizzazione della struttura amministrativa e dei rapporti tra centro ed
enti locali e la costituzione di un moderno sistema fiscale uniforme su tutto
il territorio, basato su un Nuovo Catasto, che fornisse una base imponibile più
ampia e un’equa ripartizioni del carico fiscale, garantendo correttezza e
certezza alla tassazione. Simbolo di questa complessa manovra riformatrice è la
monumentale opera del Nuovo Censimento di tutte le proprietà dello Stato di
Milano e quindi anche quelle della Valsassina e delle sue Comunità. Il Nuovo Catasto
è necessario anche per aggiornare le stime dei fondi rurali fermi alla metà del
Cinquecento ed ha come obiettivo quello di correggere incongruenze e
ingiustizie all’interno dei vari Territori dello Stato, che erano le nefaste
conseguenze del precedente censimento, quello chiamato di Carlo V (1549-52). In
quella occasione, per la prima volta, vengono misurati con precisione tutti i
possedimenti del territorio, utilizzando un’unica unità di misura, la pertica
milanese (654 mq) ed esprimendo i valori dei fondi in scudi, che corrispondono
ad 1/6 della Lira. Nella elaborazione di
questo catasto, la nobiltà milanese non volle però accettare il principio che
la tassa fondiaria fosse imposta a ogni singolo proprietario e pretese che
fosse mantenuto in vigore la tradizionale ripartizione delle tasse sulla
Comunità, le 57 Pievi o Territori in cui era diviso lo stato. Questo sistema
consentiva corruzione e iniquità a favore dei più potenti, i nobili, i
principali proprietari che godevano di una assoluta supremazia all’interno
delle singole amministrazioni locali. È per questa ragione che, nel
Cinquecento, non vennero misurate le singole proprietà e redatte le relative
mappe (come nel Catasto Teresiano), ma venne definita la superficie complessiva
dei vari Territori. Di conseguenza, quando lo Stato assegnava la quota di
tributi spettante ad ogni singolo Territorio, era questo a determinare, nel
proprio ambito e a proprio arbitrio, il riparto per i singoli contribuenti, che
avveniva a favore dei più ricchi cittadini di Milano, cioè la classe nobile
milanese. Questa possedeva con la Chiesa (che era esente dalla tassazione) i
2/3 della terreni tassabili nella parte più fertile e redditizia della pianura
lombarda, cioè in 30 delle 57 Pievi o Territori, nella parte meridionale del
Ducato. È proprio qui, nella bassa pianura, che si concentra la proprietà dei
cittadini milanesi e in primo luogo della sua nobiltà cittadina.
Inoltre nel catasto di Carlo V, per la prima volta, si distinguevano i terreni
da tassare a seconda delle varie destinazioni d’uso (prato, arativo, risaia,
bosco, vigneto ecc), ma nella tassazione non si teneva conto della redditività
e si favorivano i terreni della pianura rispetto a quelli collinari o montani.
Per fare un esempio, le risaie erano tassate per 5 scudi a pertica mentre i
ronchi, i terrazzamenti collinari, per 8. Questo favoriva i terreni più
produttivi e fertili della pianura, dove era nettamente prevalente la proprietà
nobiliare, il cosiddetto “perticato civile”, le terre dei cittadini del
capoluogo, a danno di tutti gli altri proprietari non milanesi, che
costituivano il “perticato rurale”, cioè
le terre dei contadini, terre non nobiliari, presenti nei rimanenti 27 Territori,
dove, tra l’altro, la proprietà richiedeva più lavoro e le rese erano più scarse.
Il risultato era che il “perticato
rurale”, di poco inferiore a quello "civile", cioè quello dei cittadini di Milano e provincia per
intenderci, “sopportava prima del 1760 un carico fiscale quasi doppio” ,
determinando un forte squilibrio del
contributo fiscale tra la parte bassa (“perticato
civile”) e alta (“perticato rurale”)
dello Stato milanese.
La Valsassina, dove non esiste proprietà di cittadini milanesi e distinzione
tra i due perticati, in quella occasione, con l’introduzione del catasto di
Carlo V, ha goduto di una situazione di privilegio in quanto la valle venne mantenuta
esente per i Beni Comunali, che costituivano circa i 2/3 del territorio e questo
in ragione dell’essere zona di confine dello Stato e area di montagna e quindi
segnata da precarie condizione socio-economiche che la pongono a rischio di
spopolamento.
La prima Giunta e il “Processo delle Tavole”
Elaborato in un arco temporale di oltre
quarant'anni, dal 1718 al 1760, e benché iniziato dall'imperatore Carlo VI, fu
chiamato Catasto Teresiano da Maria Teresa che, nel 1740, allora ventitreenne,
figlia maggiore in assenza di eredi maschi, salì al trono d'Austria alla morte
del padre. Il Censimento Teresiano, a differenza di quello di Carlo V, fu
generale perché interessò tutte le proprietà, anche quelle ecclesiastiche e fu
particellare in quanto vennero effettuati degli accertamenti oggettivi su ogni
singola proprietà, dalle basse pianure irrigue del Lodigiano e Mantovano ai
piccoli paesi dell'alta Valsassina. Per queste misurazioni estremamente
precise, venne usato uno strumento, la tavoletta pretoriana, perfezionato dallo scienziato e matematico di
corte Giacomo Marinoni e adottato per la prima volta
nelle operazioni del catasto milanese del 1720, da lui stesso organizzate e dirette. Ogni singola proprietà, misurata con un'unica unità di
misura, la pertica milanese ( 654 mq), sarebbe stata rappresentate in mappe
redatte in scala 1:2.000, con un'estrema cura per tutti i dettagli del
territorio (laghi, fiumi, ponti, strade)
e questo perché le carte, per il Marinoni, avrebbero potuto avere anche un uso
militare.
Per sovrintendere ai complessi lavori del
Nuovo Catasto fu nominata una Giunta, composta da funzionari di origine non
milanese e presieduta dal giurista napoletano, Vincenzo Miro. Questa decise di
raccogliere informazioni sulla situazione finanziaria e fiscale di ogni singolo
paese, instaurando un dialogo diretto tra amministrazione centrale e Comunità
locali, escludendo da questo processo l’aristocrazia fondiaria, le
magistrature, i notabili e il clero. In questa prospettiva viene varata
l'inchiesta nota come "Processi
sulle Tavole", condotta dai commissari catastali negli anni 1721-23,
quando la complessa misurazione di tutte
le proprietà e l’elaborazione delle mappe era stata già in parte completata.
Per quanto riguarda la Valsassina, per ognuna delle sue Comunità, sono
convocati dalla commissione presieduta dal Conte Guidobono due amministratori,
“sindaci”, di ogni comune a cui
vengono sottoposte le stesse domande circa la situazione economica e sociale
del loro paese. Precede l’udienza dei sindaci locali, il 14 settembre 1722, la
deposizione del Sindaco Generale della Comunità della Valsassina, Michelangelo
Manzoni, la più alta autorità politica della valle e patrocinatore dei suoi
interessi davanti alle massime magistrature e al supremo organo
giurisdizionale, il Senato.
I Manzoni, pur non essendone originari, sono un clan potente e ricco che domina
la vita economica e politica della valle e tra il XVII e XVIII ricopriranno
ininterrottamente la carica di Sindaco Generale che diventerà, proprio con
Michelangelo, vitalizia e di fatto ereditaria. In questi secoli i Manzoni sono
protagonisti di una scalata ai vertici del potere economico, finanziario e
manifatturiero, utilizzando anche il prestito d’usura per impossessarsi dei
terreni di altri proprietari o avversari. Membri del potente collegio dei 39
Notai della Valsassina, diventano ben presto i maggiori proprietari fondiari della
valle ma, soprattutto, affermano il loro ruolo di supremazia nel settore chiave
dell’economia locale, quello della metallurgia. La Valsassina è l’unico
distretto di tutto lo Stato di Milano in cui si trovano miniere di ferro
(siderite) per la produzione di ghisa (dieci tonnellate, soprattutto per le
palle di cannone) e dove prospera un settore siderurgico, con 6 forni fusori e
25 fucine, che dà lavoro a più di 400 persone. I Manzoni sono gli unici che
sono in grado di controllare l’intero processo
di produzione, esente da tassazione all’interno della Valsassina. Detengono le
migliori miniere sul Monte Varrone, vicino a Premana e sono in grado di imporre
alle varie Comunità prezzi irrisori per uno sfruttamento da rapina dei boschi,
per ottenere il carbone necessario per la fusione del metallo; posseggono un
altoforno a Premana e quote importanti nella proprietà degli altri; sono
proprietari di fucine collegate per la trasformazione del prodotto fuso e in grado
di occuparsi del trasporto e della sua collocazione sul mercato. Grazie
all’espansione del patrimonio fondiario, all’allargamento dell’attività del
credito, data la vasta liquidità disponibile (prestavano denaro anche alle
stesse Comunità della valle) e la ricca attività imprenditoriale nel settore
del ferro, i Manzoni diventano gli incontestati e temuti dominatori
dell’economia e della società della
Valsassina, instaurando un “vero e
proprio regime intimidatorio per
impedire a chiunque di opporsi al loro predominio”.
Per affermare il loro potere non rinunciano alla eliminazione fisica degli
avversari, come nel caso dell’omicidio di Luigi Arrigoni, nel 1639, appartenente
ad una famiglia rivale in affari .
La deposizione del rappresentante
più autorevole e influente della Comunità della Valsassina, Michelangelo Manzoni, ha un obiettivo preciso: convincere
la Giunta a tenere bassi gli estimi in questo territorio, in considerazione del
suo particolare ambiente geografico e del suo infelice clima e delle misere
economico-sociali in cui versa la popolazione. Nel suo memoriale traccia un
quadro desolante di questa realtà montana che è funestata dall’inclemenza
climatica, dalla cronica povertà agraria e dalla scarsità delle risorse, che è
all’origine di una larga emigrazione maschile. Tutti questi aspetti della
situazione economica e sociale della valle sono confermati puntualmente dai
tutti sindaci delle varie comunità nelle loro deposizioni, ribadendo il quadro
generale già delineato dal loro capo istituzionale.
Dai verbali del 17 settembre del 1722, riguardanti Casargo, sappiamo che i
convocati sono due sindaci, amministratori e proprietari. Il primo è Carlo
Francesco Ruberti (è probabile ci sia un errore di trascrizione del
cancelliere, non unico nel testo, per cui viene scritto"Ruberti" per "Uberti"), mentre il secondo
amministratore è Andrea Cresseri. Le deposizioni dei due sindaci concordano su
ogni punto. Per quanto riguarda il comune di Casargo, insieme a Codesino e
Somadino, esso è composto da "70
fogolari" ed è censito in “lire 6 di estimo"e le tasse si
pagano "due terzi sul reale” (la proprietà) e “un terzo sui fogolari, il personale (tassa sui maschi adulti tra 14
ai 60 anni) e sul bestiame".
Le uniche voci di entrata nel bilancio del comune sono gli affitti, di tre
“monti” (i pascoli estivi) su cinque.
Non viene specificata la durata ma sappiamo che erano di nove anni, come
accadeva in altri Comuni. Il primo “monte”, chiamato Ombrega, è affittato
per 307 £ equivalenti a 51 scudi (uno Scudo equivale a I/6 di una Lira) a
Bartolomeo Scandella, uno dei principali proprietari di Barzio. Il secondo “monte” è quello di Sasso da Rotto
affittato a Lorenzo Cargasacchi a 148 £ e il terzo è Ariale, che in genere non
si affitta, "ma al presente per la
comune necessità", dato a Andrea Cresseri, il sindaco stesso che
depone insieme al Ruberti-Uberti per 102 £, per un totale degli affitti di
557 £. Gli altri due monti, Paglio e Chiarello, restano a disposizione della Comunità.
L'altra entrata più modesta viene da due mulini presenti in paese, affittati a Bernardino Manzolino e Damiano Manzolino, che
“pagano l'uno 15 lire all'anno e l'altro
lire 20”.
I terreni agricoli del Comune sono così descritti: " I terreni di questo territorio di questa comunità sono tutti senza
acqua, e consistono in prati e d'una, e di due tagliate; in campi parte da ara,
parte da zappa, in boschi di castano, e da taglio, in costiere e in zerbi (terreni
sterili e incolti)". Alla
domanda se i terreni si affittano o si "danno a massaro", cioè a mezzadria, la risposta è lapidaria:
"Tutti i nostri terreni restano
lavorati in casa". Quali "grani"
si seminano e quante "stara"
(staio corrisponde a 18,2 litri) si
usano per semenza? Il Ruberti- Uberti risponde che "si semineranno da cento stare di segale e da trentacinque stare di
formentone nero (grano saraceno), e
d'orzo bianco, e si semina un poco di canapa". Riguardo alla
quantità del raccolto la risposta è la seguente:"
Di segale ne faremo in tutto un anno da
ducento cinquanta stara, e degli altri grani da stare cento; non bastando il tutto, per tre
mesi al nostro mantenimento". Sul
raccolto delle castagne non è possibile nemmeno una stima "essendo molti anni che nel nostre paese
vanno male" e per il fieno l’uno
afferma che "per una pertica di
prato si farà da 70 lire di fieno" e per Cresseri "settanta libbre all'anno per pertica"
(la libbra
equivale a 0,3 kg).
I
commissari catastali chiedono se, negli
anni 1718, 19 e 20, nel territorio ci siano state "urgenze o alcuna disgrazia" e la risposta è:" Siamo sempre soggetti a tempesta e nel 1720 la tempesta ci ha portato
via quasi tutto il raccolto". Alla domanda se il "personale è bastante per il lavorerio di tutto il territorio", la
risposta non lascia adito a dubbi:
"E' bastante, anzi va la maggior parte per il mondo a guadagnarsi il vitto". Il valore approssimativo del terreno
alla pertica è di 35 £. I pesi utilizzati nel Comune sono quelli della
Valsassina e le misure quelle di Milano. Non ci sono "moroni" (gelsi) quindi niente "bigatti" (bachi da seta). Le anime di Casargo con Somadino e
Codesino, secondo le testimonianze dei sindaci, sono in tutto 396.
Il giorno 13 e 22 settembre sono i giorni delle deposizioni degli
amministratori di Indovero e Narro e i convocati sono Pietro Marazzo e
Bartolomeo Adamoli. Da queste testimonianze sappiamo che i Comuni sono sempre
stati separati ma che hanno in comune la parrocchia. Per Indovero sappiamo che
paga 45 scudi (7,5 £) di estimo e 40 (6,6 £) per Narro con 37 "fogolari". I bilanci dei Comuni non
hanno entrate significative e solo a Indovero sono affittate alcune case e un “mulino a due ruote". Alcuni terreni
in entrambi i paesi vengono dati a mezzadri e i “sindaci” tengono a precisare che i due
Comuni sono soggetti a “tempeste, brine e
venti che l'anno con l'altro ci
portano via la metà dei raccolti". A Indovero e Narro si semina segale
e il grano saraceno e in entrambi si hanno basse rese: si semina “25 stara di segale e dodici di grani minuti
e si raccolgono 70 e 48 di minuti”, compresa
la semenza". A Indovero il
raccolto “basta per 7 mesi e a Narro solo
tre”, mentre le castagne" sono molti anni che vanno male". I
sindaci affermano che il "personale
è abbondante, anzi va tutto fuori di paese a guadagnarsi il vivere" e
che "le anime" sono a
Indovero 224 e a Narro se ne contano 206. La differenza maggiore con Casargo è
che a Indovero e Narro non si affittano i Beni Comunali, probabilmente perché
sono considerati indispensabili per la sopravvivenza di una buona parte della
popolazione di questi due paesi, caratterizzati da una maggiore precarietà
economica.
Le audizioni degli amministratori locali nel corso dei "Processi sulle Tavole", una specie
di istruttoria a scopo conoscitivo, non aggiungono molto al quadro già
delineato dal Sindaco Generale. Come tutti
i possidenti di tutto lo Stato, anche quelli della Valsassina prevedevano che
la realizzazione di un futuro catasto dei nuovi ‘padroni’ austriaci, avrebbe
potuto comportare la fine del vecchio regime
fiscale a loro favorevole e un aumento degli
estimi delle loro proprietà, con un aumento delle tasse. Tutti volevano scongiurare
questo pericolo e da qui le “lamentazioni”
che si elevano da tutte le parti della “Lombardia
austriaca” con lo stesso tono querimonioso. Tutte i gruppi dominanti cercano di difendersi da un prevedibile
inasprimento fiscale e proteggere i propri interessi, a volte consistenti e ben
nascosti, dietro rovinosi scenari dove campeggiano solo endemiche piaghe e un’irrimediabile
povertà, che interessa sì una parte della popolazione ma non certamente la sua
totalità e non certamente le ristrette élites a capo dei vari territori.
Le testimonianze dei “sindaci” valsassinesi, come avviene del
resto in tutti i Territori, mirano quindi a sottostimare le potenzialità
tributarie delle comunità, mettendone in evidenza soprattutto gli elementi di
crisi, causati della ristrettezza delle risorse, dovuta alla presenza di
terreni di scarso valore con basse rese e raccolti che erano sufficienti solo
per alcuni mesi all’alimentazione della popolazione. Questa era già al limite
della sopravvivenza e dissanguata dalla emigrazione, in un'area geografica come
quella montana, afflitta oltretutto da eventi climatici particolarmente
sfavorevoli.
Il quadro socio-economico che si ricava dalle varie testimonianze risulta forse
vago e indeterminato, ma le pur scarse e catastrofiche informazioni mettono in
luce alcune innegabili criticità del territorio di montagna, come, per
esempio, l’insanabile scarsità di terreno coltivabile e la conseguente
emigrazione di una parte della popolazione. Sappiamo infatti che l'emigrazione
in Valsassina, come del resto in tutta l'area alpina, è endemica e non solo in
quel periodo storico .
Essa è determinata dalla povertà agraria dovuta alla ristrettezza dell’area
coltivabile, insufficiente per il mero sostentamento. Questo stabile flusso migratorio che, con le rimesse inviate
in Valsassina, consentiva la sopravvivenza di chi rimaneva, sarà non solo
confermato da altre testimonianze ma anche dai numeri della popolazione, raccolti
nel Censimento effettuato nel corso del Catasto, che metterà in luce come in
tutte le Comunità della Valsassina il numero delle donne è nettamente superiore
a quello degli uomini.
Il clima con le sue inclementi avversità
è un tema sottolineato da tutte le testimonianze (come in ogni parte dello
Stato, del resto) ed è certo che per
tutto il Settecento le condizioni climatiche furono molto rigide d'inverno in
tutta Europa e soprattutto nell'arco alpino. In questo periodo storico,
l’Europa è ancora nel pieno di quella che è stata definita la Piccola Era
Glaciale, che si concluderà solo nella seconda metà dell'Ottocento. Essa è
stata caratterizzata da un abbassamento della temperatura media nell'emisfero
boreale e da picchi di eccezionale freddo nella stagione invernale e
precipitazioni nevose che determinarono una avanzata
dei ghiacciai alpini verso quote più basse di quelle consuete. Fenomeni
climatici estremi furono frequenti, anche in Valsassina, in questo periodo
insieme a esondazioni, smottamenti ed eventi disastrosi, causati anche dal
dissesto idrogeologico, generato anche da un disboscamento selvaggio e senza regole
al servizio della rapace e insaziabile metallurgia locale. Un grave episodio di
questo genere accadde il 15 novembre 1762. Una frana cancellò il paese di Gero,
vicino a Barcone, seppellendo case e animali e causando 112 vittime. L'autunno
di quell'anno la piena del Pioverna aveva provocato numerosi danni a molti
paesi della valle. Premana e Pagnona erano rimaste isolate per la distruzione
di strade e crolli di ponti e c’erano state inondazione di terreni nella
valle con conseguenze tanto gravi da convincere
il governo asburgico a concedere a 15 Comuni
un’esenzione fiscale per il primo semestre del 1763 .
Quindi è molto probabile che il clima abbia giocato un ruolo particolarmente
negativo in quel periodo per l'economia della valle, come del resto in tutta la
zona alpina.
Altro elemento interessante delle deposizioni dei sindaci riguarda i Beni
Comunali, che in Valsassina potevano arrivare a coprire fino al 90% della
proprietà totale disponibile come a Barzio e sui quali venivano, da tempi
immemorabili, esercitati diritti riconosciuti dagli Statuti del 1388 e
fondamentali per la sopravvivenza soprattutto della parte più povera della
popolazione, quali il pascolo, la raccolta di legna, la caccia e la pesca.
Dalle testimonianze di Casargo sappiamo che già dal 1722, ma ignoriamo da
quando questa pratica sia iniziata, tre "monti" (area di pascolo estivo) su cinque, qualcosa come il
60-70% dei Beni Comunali erano “solitamente”
affittati a privati (tra cui lo stesso “sindaco”)
e questo, secondo gli amministratori del comune, “per la comune necessità”, vale a dire per far quadrare i bilanci
comunali. Quindi i pascoli affittati non erano ritenuti
così vitali per la comunità, i cui diritti potevano essere facilmente
sacrificati, anche se Casargo ospitava nel proprio territorio un alto numero di
capi di allevamento. Quello che accade a Casargo può essere considerato
singolare, ma l’affittanza dei pascoli è ormai pratica diffusa da tempo in
tutta la valle. Dalle dichiarazioni dei sindaci delle altre comunità, sappiamo
che si affittano i “monti” a Pasturo
(ai bergamini 120 £ l’anno); Barzio (un monte a 1330 £ l'anno); Esino,
Primaluna, e in quest’ultimo paese sempre allo Scandella che abbiamo trovato a
Casargo e Pagnona (2 monti a 538 £). La stessa cosa accade a Premana (ai
bergamini 607 £), Crandola (che affittava ai bergamini il monte Dolcigo a 172
£) e Margno (monte Grasso 140 £) che confinano con Casargo. A Margno i confini
dei Beni Comunali, da tutti sempre difesi con puntiglio dagli sconfinamenti dei
vicini, si fanno ‘labili’ perchè, dalle diverse testimonianze dei "Processi",
sappiamo che Premana acconsente a Casargo e Pagnona l'utilizzo dei propri e la
stessa cosa accade tra Casargo e i confinanti Margno e Crandola.
L’ intangibilità dei Beni Comunali è ormai cosa antica già nei primi decenni
del Settecento e si scopre che i vari gruppi dominanti, nei diversi paesi,
potevano disporne con libertà, anche per la pochezza delle entrate e a
detrimento dei diritti della popolazione più povera. Che la pratica dell'affitto
dei Beni Comunali sia continuata arrivando ben oltre l’abuso, e per questo
portato alla conoscenza delle autorità austriache, lo lascia capire un editto
del 29 novembre del 1763. Nel testo "firmato
dal Presidente e dai questori della Magistratura Camerale milanese”, “si vietava agli amministratori locali di
affittare i Beni Comunitativi" e si dichiarava che "i contratti di affitto
dei Beni Comunali stabiliti dalle amministrazioni locali dopo l'anno 1760“ (data di inizio del nuovo Catasto) dovevano ritenersi
“nulli”. Addirittura la questione era
stata sottoposta alla stessa imperatrice Maria Teresa che aveva deliberato che
"li fondi comunali rimangano
onninamente nell'antica loro tradizione senza punto innovare sopra li Diritti"
.
L'intervento del governo asburgico, con altisonanti editti, per il rispetto
delle norme consuetudinarie non interruppe tale pratica ormai consolidata da
tempo. Questa prassi sarà riconosciuta legittima solo alcuni decenni dopo,
quando quegli affitti servivano anche per uscite fiscali proprio per i Beni
Comunali, prima del Catasto Teresiano esenti da tassazione in Valsassina, ma
tassati con il nuovo regime.
I lavori preparatori del Catasto, già
rallentati dall’opposizione della grande proprietà laica ed ecclesiastica, che detiene soprattutto
nel Ducato di Milano dei 2/3 della proprietà fondiaria della pianura, subirono
un lungo arresto per lo scoppio di due conflitti di scala continentale, che
coinvolsero tutte le grandi nazioni europee. Dopo la guerra di successione
polacca (1733-1738), durante la quale il Ducato e la stessa Milano furono
invase dalle truppe francesi e sabaude (1733) e il governatore della città
riparò a Mantova, mettendo in salvo tutti i documenti riguardanti il Nuovo
Catasto, due anni dopo scoppiò la guerra di successione austriaca (1740-1748). Il
conflitto fu innescato, formalmente, dal mancato riconoscimento della
Prammatica sanzione dell’imperatore austriaco Carlo VI, con cui si regolava la
successione secondo un rigido principio di primogenitura, femminile in
caso di assenza di eredi maschi. All’improvvisa morte del sovrano senza
discendenti maschi (1740) e alla successione della figlia maggiore, Maria
Teresa, scoppia il conflitto tra le potenze europee, durante il quale Milano fu
di nuovo occupata. Il conflitto si chiuse nel 1748, con un’ulteriore riduzione
del territorio e con la perdita del Vigevanese e l’Oltrepò Pavese, che furono
assegnati al Regno Sabaudo.
Con la pace riprendono i lavori del Catasto, sotto la guida di una nuova Giunta
(1749), presieduta da un giurista fiorentino, Pompeo Neri, uno dei protagonisti
della stagione delle politiche riformiste nel Granducato di Toscana. Il nuovo
organismo deve concludere i lavori del Catasto, compilando tutti i
registri che Comunità per Comunità
elencavano le singole particelle di terreni, contrassegnate dallo stesso numero
d'ordine registrato nelle mappe, con il nome del possessore, il perticato, la
destinazione colturale e il valore capitale in scudi. Nel quadro di una riforma
complessiva dell’intera amministrazione, la Giunta doveva quindi varare il
nuovo sistema di imposizione tributaria, basato sulla imposta fondiaria,
proporzionale al valore della proprietà e riordinare il sistema tributario,
mettendo fine alla sperequazione nella distribuzione del carico fiscale in
favore di Milano, quelle che allora venivano chiamate “sproportioni”, insistentemente lamentate negli anni da molte
Comunità e città, quali Cremona, Pavia, Como e Lodi.
I lavori della seconda Giunta e i “45 Quesiti”
Nel 1751, un nuovo memoriale,
edito a stampa, viene indirizzato dall’onnipresente Sindaco Generale della
Valle, sempre Michelangelo Manzoni, alla nuova Giunta Neri. Lo scopo di questa
lunga perorazione è quello di ricordare ai funzionari catastali, prima di procedere
all’individuazione degli estimi, la particolare realtà “alpestre” del territorio della Valsassina (“prendendosi circa 12 lupi, e 6 orsi un anno con l’altro”), il suo
clima avverso, la povertà agraria e la conseguente “tenuità del raccolto”. Quest’ultimo, scrive il Sindaco Generale, è sufficiente
solo per pochi mesi e rende necessaria “la
grave spesa” per il grano, importato da altre parti dello Stato dalla
Comunità della Valle stessa, “nella
quantità di Somme 286 al mese, che sommano 3432 e così Moggia 5148 all’anno, riconosciuti per la necessarj per l’indispensabile
mantenimento di que Terrieri”. Delineando una situazione economica e
sociale già intollerabile, che necessitava per la sopravvivenza della
popolazione una così ingente importazione di grano (7.000 quintali all’anno è l’equivalente di di 5.148 moggia), si fa
presente alla Giunta che, nel passato, proprio per la povertà della popolazione
i Beni Comuni ( 2/3 dell’intera proprietà delle Comunità) non sono mai stati
tassati e hanno goduto sempre di immunità, anche nel precedente catasto, quello
di Carlo V. In chiusura del suo lungo e appassionato intervento, l’alto
rappresentante della Valsassina chiede quindi alla Giunta “la congrua moderazione delle stime ne Beni privati, e la continuazione dell’esentazione di ogni Carico ne Boschi,
e Pascoli esclusi da censimenti passati”.
Intanto, tra i primi atti della Giunta Neri
c’era stata la decisione di acquisire, in forme più efficaci rispetto al
passato, informazioni di carattere tributario, proprietario e demografico su
tutti Comuni interessati al nuovo censimento catastale e per questo motivo era
stato elaborato un questionario fisso, noto come dei "45 Quesiti" da
inviare a tutte le Comunità dello Stato. A queste viene richiesto di redigere
un preciso bilancio finanziario e tributario per gli anni 1747-48-49, allegando
anche la lista completa dei proprietari-contribuenti di ogni Comunità e tutti i
dati sulla popolazione.
Questo ‘mini censimento’ offre l’occasione di conoscere tutti i carichi fiscali
e i sistemi tributari adottati delle varie Comunità in quegli anni, ma anche di
portare alla luce il farraginoso sistema di esazione che vigeva nel vecchio
regime, in Valsassina come in tutto lo Stato di Milano, basato sul sistema
delle “quote”. Questo complesso
meccanismo veniva messo in moto ogni anno con la determinazione, da parte dello
governo centrale, della somma totale dei tributi che erano necessari per il suo
funzionamento, considerate tutte le spese ordinarie e straordinarie. Per la ripartizione del carico, come ricorda
lo storico Agnoletto, “rimanevano in
vigore le regole introdotte con l’antico Censimento…per cui ci si limitava a
stabilire le quote per le singole città e i singoli contadi, mentre l’ulteriore
suddivisione tra i contribuenti rimaneva un compito delegato alle varie
amministrazioni locali, che potevano scegliere le modalità di raccolta
ricorrendo a loro discrezione all’imposizione diretta, a quella indiretta o
all’indebitamento”.
Nel caso della Valsassina, La ‘Comunità
di Valle’, ricevuta da Milano la “quota”
di tributi a lei spettante, procedeva a sua volta, al proprio interno e a
propria discrezione, al “riparto”,
cioè all’individuazione della “quota”
per ogni singola Comunità, aggiungendo poi le spese locali relative alle loro
esigenze interne. Su questa base ogni
comune redigeva il proprio bilancio preventivo, che recava perciò al primo
posto le uscite statali e locali, queste ultime
destinate per la Comunità di Valle e
per la singola amministrazione locale.
Grazie i “45 Quesiti”, per gli anni
1747,48,49, è quindi possibile conoscere
le “quote”complessive che il Fisco
Centrale assegnava all’intera Valsassina, compreso anche il territorio di
Vendrogno e il Monte di Varenna
(composto da Perledo e altri 5 paesi sulle montagne prospicienti l’insediamento
lacustre). Queste comprendevano le due tasse principali dello Stato Milanese. La
più gravosa delle due è la “Diaria”, istituita
nel 1707 dagli Austriaci, sostituiva un’identica tassa spagnola, il Mensuale, che serviva unicamente per
finanziare tutte le spese militari, che nel bilancio della Stato di Milano
potevano arrivare, come nel 1761, al ”45%
delle uscite”.
Alla Valsassina, per il 1747, spetta una “quota”
di “Diaria” di 23.222 £, che doveva essere ripartita sulle
Comunità in base agli estimi del catasto di Carlo V. Seguiva la seconda tassa
chiamata “Camerale”, perché La Regia
Camera era il Fisco dello Stato di Milano e per l’intera valle valeva 11.376 £.
I riparti maggiori spettavano, per entrambe le tasse, a Pasturo, Monte di
Varenna, Barzio e Premana. Per quanto riguarda la tassa “locale”, che serviva al funzionamento della Comunità della Valle prevista dagli Statuti della Valsassina, essa
globalmente ammontava a 1.800 £, che saliranno però a ben 2.700 £ nel 1749 e
nel “riparto” i maggiori contribuenti
erano sempre gli stessi. Le principali voci di uscita nei bilanci comunali, di
cui peraltro non sono indicate le entrate, sono proprio le due tasse statali, “Diaria” e “Camerale”, che costituiscono tra 80 e il 90% delle uscite. Le tasse
“locali”, per il Comunità della Valle e quelle imposte autonomamente dal singolo
comune, insieme percentualmente variavano dal 10 al 15% del totale. Per
quell’anno, il 1747, è presente nel bilancio di tutte le Comunità valsassinesi anche
una consistente tassa straordinaria chiamata “Sovraimposta”del 9-10% del totale, assente negli esercizi 1748-49 e necessaria per sanare il deficit
del bilancio dello Stato, a conclusione della guerra di successione austriaca.
Per far fronte a tutte queste tasse (“Diaria”,
“Camerale”, le tasse “locali”
e “Sovraimposta” straordinaria), le
amministrazioni comunali a loro volta tassavano i contribuenti con tutta una
serie di imposte dirette. La prima è il “reale”,
cioè la tassazione sulla proprietà fondiaria e le case di abitazione; segue il
”personale”, la tassa sui maschi
adulti di età superiore ai 14 anni e fino ai 60, (ma a Codesino e Casargo si
tassano anche i bambini dai 7 ai 14 con metà della tassa degli adulti, mentre a
Cassina, Cremeno e Introbio il “personale”
non è addirittura usato); poi la tassa sui
“fuochi”, cioè i nuclei
famigliari e la tassa sugli animali. In alcuni paesi, Barzio e Cassina, c’era
anche la tassa sui “foresti” o “forastieri”, persone da poco residenti
nella Comunità
In ambito fiscale le amministrazioni locali
decidevano sia sul numero delle tasse che sul loro ‘peso’. In generale, nei
casi in cui ci si limita a due tasse, il “reale”
(la proprietà fondiarie e la casa di abitazione) e i “fuochi “(la tassa sulla famiglia), il rapporto è 2/3 e 1/3 ma nel
caso siano presenti tutte le forme di tassazione il rapporto è ½ il reale e ½ il resto (fuochi,
personale e bestiame). Ma in ogni comune, come
per Casargo e Codesino, le percentuali variano, come variano i compensi
per gli esattori incaricati della raccolta delle imposte, scelti attraverso una
pubblica asta, il cui compenso compare nel bilancio.
Naturalmente più è alta la tassa sui “fuochi”e
sul “personale”, cioè sugli
individui, più è ‘leggera’ quella sulla
proprietà, a vantaggio dei possidenti
soprattutto i maggiori ed è questo che le élites locali, a capo dei
singoli Comuni, cercavano di imporre alle proprie Comunità. L’unico elemento simile in tutti i paesi della Valsassina è
l’esenzione del tributo delle donne, perché, come si afferma nella relazione
introduttiva, basta “il carico delle
grandi fatiche e lavorerij, che sono obbligate a fare per la mancanza delle
uomini costretti a acquistarsi il vitto in paesi esteri, come è notorio”.
Per l’anno 1747, Codesino presenta un bilancio separato da Casargo, che è
associato con Somadino, e per questo sappiamo che il primo è il paese più
‘ricco’, almeno da punto di vista contributivo: infatti gli è assegnato un “riparto” maggiore 1.546 £, di cui
91% è destinato ai tributi statali (“Diaria”, “Camerale” e Sovraimposta”) e l’8% per i tributi locali
(56 £) e comunali (81 £). A Casargo è assegnato un riparto inferiore di 1.251
£: l’86% della quota per i tributi statali e il 13% per i locali (49 £) e
comunali (125 £). A Codesino sono presenti proprietari con estimi più alti e il
numero degli animali è più ampio. Sappiamo che nelle tre Comunità sono
presenti, perché tassati, 62 “fuochi”
(25 Codesino e 35 a Casargo), con 134
uomini dai 14 anni in su e 28 bambini,
dai 7 anni ai 14, perché anche questi tassati. In queste comunità sono previste
tasse sul “reale”, sul “personale”e sui “Fuochi”e si tassano anche gli animali per cifre molto modeste: le
mucche sono gli animali più tassati, poi
vengono i cavalli e alla fine pecore e capre che valevano 1/6 di una mucca. È
proprio per questo che sappiamo che nei tre paesi c’erano ben 232 bovini, 154
pecore, 289 capre e a Codesino 2 cavalli, che sono l’equivalente dei moderni
trattori e un indice della presenza di terreni arabili. Dunque un patrimonio
zootecnico non da poco se raffrontato a Barzio, la Comunità più ricca della
valle, che poteva contare su 306 bovini e ben 26 cavalli.
A Casargo con Somadino e a Codesino sono quindi presenti tutte le tasse. A
Casargo con Somadino la parte del “reale”
costituisce solo il 45% mentre tutto il resto (“personale”, “fuochi” e
animali) copre più del 54% della tassazione. Mentre a Codesino accade l’inverso
e il reale sale al 54% mentre il rimanente al 45%. Dall’elenco dei proprietari-contribuenti
delle tre comunità, nel 1747, sappiamo che erano 180 e dalla relativa tassa
pagata sappiamo, tra i primi trenta considerati, che i più ricchi dal
punto di vista fiscale si trovavano a Codesino, dove tra l’altro, c’è il maggior
numero di animali e 2 cavalli.
L’elenco dei maggiori contribuenti dei
tre Comuni dal punto di vista fiscale in ordine crescente per tributo
pagato vede al primo posto Domenico Maffeo (105 £) e a seguire Andrea Cressero
( 92 £); Santi Regazone (85 £); eredi Bartolomeo Rubino (80 £); Camillo Mafei
(76 £). Tutti questi risiedono a Codesino.
Solo al 6° posto troviamo Carlo
Tenca (71 £) di Casargo, di cui è il primo contribuente e che avrà ben diversa
collocazione nella lista dei proprietari secondo le stime del Nuovo Catasto.
Seguono Damiano Manzolino (66 £); Pantalino Regazone (64 £) di Cosedino come
Pietro Rubino (61 £); gli eredi di Giò Antonio Pensotto (£ 60) e
Giacomo Tenca (56 £); Andrea Roveda (54 £); Giò Battista Cressero (£ 51); Paolo
Mutone (£ 49); con Domenico Calvi (49 £); Antonio Mafei (49 £); Giacomo
Galuzi (48 £) tutti di Casargo tranne Mafei; e poi Domenico Pensotto (46 £) di
Codesino; Muro Melesi (44 £); Pietro Beri (43 £); eredi di Giò Battista Moiolo
(39£), Carlo Pensotto (39£), Carlo Mafei (37 £), Domenico Roveda (35 £),
Bartolomeo Manzolino (34 £); Carlo Pensotto (34 £); Carlo Antonio Tenca
(33 £); Carlo Bartolomeo Roveda (29 £); Antonio Artuso (28 £); Aurelio Beri (27
£).
Per quanto riguarda Narro e Indovero i dati
sono più frammentari. Sappiamo che i due paesi contavano 92 “fuochi” (46 a Narro a Indovero 46) e 133
uomini (dai 14 ai 60) e solo per Indovero sappiamo c’erano 14 bambini (dai 7 ai
14), che anche in questo paese sono
tassati. Ci sono nei due paesi 117 proprietari censiti: a Indovero 63
e a Narro 54. In quest’ultimo paese si contano, perché tassate, 112 “bestie bovine” e tra capre e pecore si
arriva a 423 capi. Quello che colpisce, in rapporto a Casargo e Codesino, è il
ridotto carico fiscale assegnato al Comune:
901 £ per Narro di cui 34 £ di “locale” e 106 £ di comunale, mentre per
Indovero la “quota” è di 972 £ di cui
39 £ di “locale”e comunale 73 £. La modestia degli estimi dei proprietari
contribuenti segnala in modo evidente una realtà economica molto più debole. Se
il trentesimo nella lista dei contribuenti a Casargo pagava 27 £ di tassa, a
Narro e Indovero il primo paga solo 9 £. Fiscalmente il più ricco, insieme
al curato, è infatti Angelo Domenico Piatti (9 £) di Indovero; seguono Antonio
Maria Adamolo e Giuseppe Adamolo a Narro (8 £); più giù troviamo Carlo
Adamolo (7 £) a Indovero Pasetti Carlo a Narro (6 £); a Indovero Fermo
Piatti insiemo a Carlo Marazo pagano 5 £; a £ 4 di tassa troviamo un
piccolo gruppo tra cui Franco Chiodi, Eredi di Giò Battista Chiodi, Giuseppe
Adamolo, Pietro Marazi di Narro e Giuseppe Marazi e Ambrogio Marazi.
La Giunta Neri, dopo la raccolta delle informazione sulle condizioni
finanziarie, tributarie e demografiche di
tutto lo Stato, dovette affrontare la questione più delicata e centrale di
tutto il Censimento che riguardava la
stima dei terreni. A questo fine prese la decisione di adottare come base di
valutazione dei terreni, non il valore di mercato dei fondi misurati (soggetto
a continue oscillazioni nel tempo), come
avveniva nel precedente estimo, ma il loro rendimento, cioè la loro
capacità produttiva, seguendo in questa scelta anche il parere di alcune delle città principali
che, nel 1715, furono interpellate sulle
caratteristiche future del Nuovo Censimento. Quindi, prima della stima finale, a tutte le Comunità venne
richiesto di suddividere tutte le terre (prato, terreno arato, vigneto, risaia
ecc.) presenti nei propri confini in quattro “squadre”, considerate fasce di rendita, in base alla maggiore o
minore produttività, allo scopo di distinguere quelle buone dalle scadenti. Lo
stimatore, dopo aver controllato che un terreno fosse nella fascia di rendita
corretta, determinava la rendita lorda o “cavata”
di ciascuna qualità colturale (prato, arativo, vigneto, risaia ecc.) compresa
nelle singole squadre, partendo dal valore dei prodotti che annualmente si
potevano ricavare, cioè il valore del fieno, grano, uva, riso ecc che quel terreno produceva. A questo valore venivano
applicate le deduzioni per il “lavorerio”,
cioè il costo del lavoro; la spesa per
le sementi; le riparazioni; la manutenzione e anche una compensazione
preventiva per gli infortuni naturali o “celesti”
(gelo, siccità, grandine, vento ecc.). Su questo valore netto così ottenuto, si
applicava poi il 4% per calcolare il “valor capitale” dei terreni, che risultò
essere sempre al di sotto di quello di
mercato.
Per ognuna delle proprietà delle 57 Pievi o Territori e delle oltre 1.400 Comunità
dello Stato (compresi anche tutti i beni ecclesiastici, anche se esenti), col
Nuovo Catasto si sarebbe indicato il proprietario, l'estensione, la
destinazione d'uso e quindi la stima tenendo conto delle caratteristiche del
territorio e della sua redditività per
poi arrivare al singolo estimo. Su queste nuove basi si introduce una radicale
innovazione nel sistema fiscale che si fonda su un’esatta e completa
rilevazione dei singoli fondi e una valutazione più corretta del valore di
questi. Tutto il complesso apparato punta ad un riequilibrio strutturale nella
distribuzione dei carichi fiscali all’interno dello Stato, per mettere fine ai
privilegi e allo strapotere della nobiltà cittadina milanese. Nello stesso
tempo, allargando la base imponibile, il Nuovo Catasto tende a far emergere la
ricchezza dovunque essa si nasconda, dalle irrigue e ricche campagne lombarde
alle sterili montagne della Valsassina.
Con gli stessi metodi e gli stessi fini, insieme a quello fondiario, sarebbe
entrato in funzione anche un censimento di tutti gli immobili destinati ad
abitazione e quindi tassabili, presenti su tutto il territorio. Se nel
censimento di Carlo V non si faceva distinzione nella tipologia degli edifici,
nel Catasto Teresiano tutte le località furono inserite in quattro diverse “classi”, a seconda del valore delle
case. Nella prima c’erano le abitazioni delle principali città (Milano, Pavia ,
Como ecc.) con i valori più alti, mentre nel quarta c’erano le aree più
periferiche e di basso valore come quelle dei paesi della Valsassina. Le case
di abitazione di ogni classe erano
divise in tre “squadre”, assegnando
alla prima squadra le “maggiori”,
chiamate “ville”, che pagavano una
tassa tripla della terza, in cui erano inserite le “infime” e nel mezzo c’erano le “mediocri”.
La tassa sulla casa di abitazione era più alta in relazione alla classe in cui
era inserita e alla sua tipologia.
Il censimento fu anche l’occasione per una prima accurata raccolta di dati
sulla popolazione presente nelle singole Comunità dello Stato. Questo avveniva
perché, al fine di determinare la “tassa
sul personale”, a cui erano soggetti i soli maschi in età lavorativa da 14
ai 60 anni, si censirono anche le donne,
bambini fino ai quattordici anni e i vecchi, dopo i sessanta, tutti non
tassati. Si contarono inoltre anche tutte le famiglie di ogni singola comunità,
stimando da quante persone, maschi e femmine, erano composte. Quindi il Censimento teresiano non solo consentirà
di ricostruire, in modo dettagliato,
l’assetto proprietario, fiscale e immobiliare di ogni parte dello Stato e quindi anche della
Valsassina e di ogni singolo Comune, ma attraverso questo strumento sarà possibile avere, per la prima volta, anche un
preciso spaccato demografico e sociale delle varie Comunità che la compongono.
I risultati del Nuovo Catasto a Casargo
Nel 1760, dopo una lunga gestazione, entra
definitivamente in funzione il nuovo Catasto Teresiano. Il sistema tributario
sarebbe stato fondato principalmente su una nuova imposta fondiaria, assegnata
al singolo proprietario, stabile e uniforme in tutto il territorio, che gravava
su ogni terreno individuato da un’esatta misurazione di ogni singola
particella. La tassa fondiaria avrebbe
coperto quasi il 90% delle entrate dello Stato mentre nel vecchio sistema ne
copriva solo il 40-50%. Ad integrazione di
questa, ci sarebbero state tre tasse: tassa “personale” (adulti maschi in età lavorativa, 14-60), dell’ordine di
7 £ a persona; la tassa sulle case abitate dai proprietari e la tassa “mercimoniale” sul commercio e
l’artigianato, che si limitava a porre un tributo dell' 1,25% sul ‘giro
d'affari’ annuo di commercianti e artigiani, in base a una dichiarazione
giurata degli stessi soggetti tassati. Queste ultime tre tasse, nel computo
della tassazione globale, avrebbero avuto un peso modesto, cioè nell’ordine del
10%, mentre nel vecchio sistema potevano valere ben oltre il 50%. Con il Nuovo
Catasto la tassazione diretta sposta nettamente il suo peso dagli individui (il
“personale” e i “fuochi”) alla ricchezza, cioè la terra per quei tempi, introducendo
un sistema di tassazione moderno e di certo fiscalmente più equo. Spariscono
per sempre le tasse sui “fuochi”e la
tassa sul bestiame.
Tra gli obiettivi principali del Nuovo Catasto, oltre a quello fondamentale di
far emergere la ricchezza fondiaria e allargare la base imponibile, c’è anche
quello di semplificare il sistema tributario e di renderlo uniforme su tutto il
territorio. Questo vale anche per la Valsassina, dove esistevano sistemi molto
eterogenei decisi dalle autorità locali. Altra novità per la Valsassina è che,
con il Nuovo Catasto, vengono per la prima volta misurati e tassati anche tutti
i Beni Comunali dei vari paesi, il 73% dei terreni della valle ed è per questa
ragione che ne conosciamo estensione e composizione. Riassunti in una Tavola
generale del 1769, essi ammontano a 230.008 pertiche del valore stimato di
59.913 scudi, di cui 68.194 pertiche di prato e pascoli, 53.578 pertiche di boschi e ben 126.961 pertiche, il 55% del totale
estensione totale, costituito da “Sassi nudi” e “Zerbo”.
I Beni Comunali di “Casargo ed Uniti”,
(i tre comuni sono accorpati dalla Riforma delle amministrazioni locali del
1755) si estendono per 14.449 pertiche e portano la Comunità di Casargo è al
quinto posto nella lista dei maggiori proprietari della valle. Essi hanno
il valore di 4.142 scudi e sono composti per 6.211 pertiche di pascoli e prato, mentre
il bosco è ridotto a sole 913 pertiche
(quasi I/7 dei pascoli), molto probabilmente per le voraci necessità di carbone
dei confinanti altiforni di Premana. Comunque la quota maggiore dei Beni
Comunali, 9.404 pertiche, sono “zerbidi”,
cioè incolti ma “capaci in alcuni luoghi
di miglioria”, terreno ideale per capre e pecore. Per Indovero e Narro i
Beni Comuni assommano a 8.322 pertiche del valore di 1.983 scudi, di cui 2.009 pertiche di prato e pascolo, 1.536 di bosco; tra“zerbo” e “Sassi nudi” si arriva a ben 5.599 pertiche.
Completano i lavori del Catasto un accurato censimento demografico di ogni
comunità, ripetuto nel corso di un decennio e si rilevano il numero delle
famiglie presenti, la loro consistenza numerica, il numero dei
maschi adulti, dei vecchi (dai 60 in su), dei bambini (fino ai 14 anni) e delle
donne.
La documentazione del Catasto riguardante tutta la Valsassina, tranne la “Squadra dei Monti” in cui si trovano
Indovero e Narro, con Perledo e d Esino, è stato oggetto di studio di
Enrico Baroncelli
ed è possibile, grazie ai dati raccolti in questo lavoro, avere uno
spaccato della situazione demografica e patrimoniale complessiva di tutte le Comunità
della valle. Nel 1773, ci vivono, secondo le stime del Baroncelli, 5.755 persone, di cui 3.029 donne (52%),
1.480 uomini adulti , da 14 a 60 anni (25,7%), 916 bambini (16%) e 287 con più
di 60 anni (5%). I centri più popolosi sono Pasturo (800 ab.), Premana (643
ab.) e Introbio (601 ab.).
Per quanto riguarda Casargo, con Somadino e Codesino, nel 1773, ci vivevano 60 gruppi famigliari per un totale di
305 abitanti, di cui 167 donne (55%) e 79 uomini adulti "collettabili", cioè paganti
l'imposta personale, tra i quattordici e i sessanta (25,9%). ( Da notare che
allora si diventava adulti a 14 anni e la vita media degli uomini era intorno
ai trent'anni). Nell'elenco ci sono solo 6 anziani, over 60 (1,9%) e ben 51
bambini (16,7%). Le famiglie più diffuse erano quelle dei Beri, Calvi, Maffei, Manzolini, Muttoni, Pensotti, Tenca e
Uberti. La media dei componenti per gruppo famigliare era di 5,08 persone. Alla
decina di unità arrivano solo due famiglie, quella di Bartolomeo Selva (11
persone di cui 6 donne) e Giovanni Pensotti (10 persone di cui 7 donne). Anche
a Casargo, come in tutte le paesi della Valsassina, la grande maggioranza dei
terreni del territorio comunale apparteneva alla Comunità stessa, che
possedeva, nel 1757, più del 77% del terreno totale disponibile per un valore
modesto di 4.152 scudi. Lo scarso valore
si spiega tenendo conto che i terreni comuni sono in genere pascoli, boschi,
territorio montuoso e suoli non adatti all’agricoltura. A far crescere il
valore della proprietà è naturalmente la presenza della terra arabile che in
montagna è difficile da trovare.
Il maggior proprietario di quell'epoca a Casargo è, secondo le stime del Catasto
Teresiano, Giovanni Carlo Tenca che possiede 250 pertiche per soli 613 scudi.
Per capire la precisione con cui si operavano le misurazioni delle singole
proprietà, di quella del Tenca sappiamo anche la tipologia di terreni di cui era composta. In primo
luogo lo “zapatorio” non arato ma
lavorato con la zappa, per 87 pertiche, la parte più pregiata della proprietà; poi
il prato da 2 tagli; il prato da 1 taglio di cui con noci e castagne; bosco di
castagne bosco con roveri e castagne; bosco da taglio; pascolo con castagne;
pascolo sassoso e selva. Il valore assegnato alla terra di questo proprietario
(613 scudi) è modesto se lo raffrontiamo
con una proprietà di simile estensione, per esempio quella del dott. Agostino
Sacchi di Barzio di 265 pertiche, che aveva un valore più che doppio, 1.584
scudi. Nonostante la bassa stima della proprietà, Giovanni Carlo Tenca, grazie
al Nuovo Catasto, emerge come il più ricco proprietario di Casargo quando, nel
1747, era solo il sesto nella lista dei principali. Non è certo un
latifondista, ma questo primato in Casargo lo pone nella ristretta cerchia dei
primi 50 maggiori proprietari di tutta la Valsassina. Infatti, nella
graduatoria stilata da Baroncelli di tutti i maggiori possidenti della
Valsassina, per valore in scudi, Giovanni Carlo Tenca si attesta al 39°posto e per
estensione del fondo in pertiche al 48°posto. La sua scalata nella classifica
dei maggiori proprietari potrebbe anche trovare una spiegazione con eredità o
acquisti di fondi, avvenuti dopo le
prime misurazioni catastali concluse nel 1723 e registrate con l’entrata del
Nuovo Censimento, (1760) ma è tutta la graduatoria dei proprietari di Casargo
del 1747 che risulta sconvolta.
Infatti, Santi Ragazzone, era il terzo maggior contribuente nel 1747, ora è il
secondo proprietario di Casargo, in realtà di Codesino, con 192 pertiche e 456
scudi di valore. Il terzo proprietario è Andrea Cressero, l'amministratore
interrogato nel "Processo delle
Tavole" e affittuario di un monte del comune stesso, con 119 pertiche
e 341 scudi di valore, che nel 1747 era il secondo contribuente. Anche Andrea
Roveda ha 119 pertiche ma per un valore inferiore (252 scudi) ed era al 12°posto
della lista dei contribuenti del 1747. Segue nella lista Domenico Maffei, al
quinto posto, con 113 pertiche e 339 scudi, proprietario di un'abitazione censita come “villa”,
mentre era al primo posto nella lista del 1747. Come sesto proprietario
troviamo un altro Maffei, Gio’ Antonio, che possiede 107 pertiche per 300 scudi
di valore e che era al 17° posto nel 1747. Nella lista compare poi Cresseri Domenico con 103 pertiche del valore
di 233 scudi e a seguire tutti gli altri al di sotto delle cento pertiche fino
ad arrivare all'ultimo proprietario che ne possiede solo 29.
Se il Nuovo Catasto aveva tra i suoi obiettivi principali quello di far
emergere la ricchezza, in questo caso fondiaria, anche nel microcosmo di un oscuro
e periferico paese di montagna, la lente di ingrandimento del fisco teresiano
funziona con geometrica precisione, ridefinendo la mappa dell’assetto
proprietario e quindi fiscale del suo territorio. Lo stesso effetto di ‘emersione’ della ricchezza avviene anche con il censimento delle case di
abitazione che, con il nuovo regime, sono distinte tra le varie tipologie.
Dalle stime del censimento, risulta che a
Casargo ci sono “78 case di
abitazione ordinaria” di cui, però, ben 4 sono censite come “ville”e che pagavano il doppio di quelle
“ordinarie” e il triplo di quelle “infime”. Una delle “ville” apparteneva proprio a Giovanni Carlo Tenca mentre le altre
sono intestate a Maffei Domenico, il quinto proprietario fondiario di Casargo, a
Uberti Bartolomeo e a Berlucca Giovanna.
In sintesi, una cinquantina di proprietari si spartiscono 4.271 pertiche, il
22% delle terre disponibili ma che valevano il 71% del valore di tutte le
proprietà pubbliche e private. Quella di Casargo è una piccola comunità di una
maggioranza di piccoli proprietari in cui un ristrettissimo numero di
possidenti, che gestiscono nel contempo l'amministrazione del Comune, ha però
la proprietà del bene fondamentale che è il terreno coltivabile su cui far
crescere i cereali, base dell’alimentazione della popolazione.
Anche a Casargo, come del resto in tutte le Comunità della Valsassina, le
proprietà della Chiesa (censite ma non tassate dal Catasto Teresiano) sono
molto modeste: la parrocchia possiede solo 56 pertiche del valore di 212 scudi;
più estese le proprietà di due cappelle, quella di S. Giacomo di Codesino con
96 pertiche per 144 scudi e quella cosiddetta “Galiziana” con 100 pertiche per 240 scudi di valore. Questo
conferma che, a differenza di quanto accadeva nel restante territorio lombardo,
dove un quarto dell'intero Stato milanese erano nelle mani della proprietà
ecclesiastiche, la Chiesa in Valsassina, come scrive il Baroncelli,
era "sostanzialmente povera di una
povertà che potremmo definire quasi francescana", perché i beni della
Chiesa in tutta la valle arrivavano solo il 3% del totale delle proprietà
totale, ben lontano dal 30-40 % che i
beni fondiari della Chiesa raggiungevano nell’alta e soprattutto bassa pianura
lombarda.
La situazione economica e proprietaria
di "Narro et Indovero", che
nel Catasto era considerata un’unica
comunità a sé stante da Casargo e compresa in un’altra squadra, la “Squadra dei Monti” con gli altri paesi
della Muggiasca quali Parlasco, Perledo
ed Esino, risulta, rispetto alle stime del 1747, meno ‘povera’ ma con valori proprietari
più bassi di quelli di Casargo.
A Narro e Indovero ci sono 85 famiglie
con una popolazione complessiva più numerosa di Casargo e nel 1779 era
costituita da 344 persone (salite nel 1784 a
365). La popolazione di questi due paesi è composta da ben 197 donne (57%) e
solo 88 maschi adulti (25,5%). Solo 9 persone hanno più 60 anni (2,6%) e 48 bambini con meno di 14 anni
(13,9%). In queste comunità 3 famiglie (Pasetti Barlomeo, Adamoli Pietro e
Piatti Angelo) superano i 9 componenti e solo una ha 8 componenti (Pasquino
Carlo). Per Indovero con Narro i possessori di case sono 61 e non sono censite
“ville”.
Nel 1757, la proprietà comunale in questa realtà copre il 73% della proprietà totale e cioè 8.322 pertiche per un valore di 1.983 scudi.
Oltre alla proprietà della Chiesa (tra parrocchia, cappellanie, prepositura di
Bellano e legati vari arriva a 272 pertiche, il 2% del totale), i maggiori
proprietari, tra i 190 censiti, sono Giò Adamoli (cognome più diffuso insieme a
Arrigoni, Piatti e Pasquino) con 80 pertiche del valore di 153 scudi; Marazzi
Pietro con con 65 pertiche che valgono 105 scudi e un altro Adamoli, in questo
caso Carlo, con 61 pertiche del valore di 133 scudi e via via a scendere con
proprietà sempre più piccole e polverizzate. Sappiamo che a Narro c’è
un’osteria e Indovero un’osteria e due mulini e sono state censite nei vari
alpeggi 127 "cassine": a Indovero se ne contano 64 e a Narro 63, perlopiù
con il "tetto in paglia
utilizzate per l'allevamento domestico di pecore, capre e bovini.
Con l’entrata in vigore del Nuovo Catasto sono disponibili i primi bilanci
comunali dei paesi della Valsassina, non più firmati dal sindaco, come in
passato, ma certificati dalla firma del Cancelliere nominato dal Governo
Centrale, sotto il cui tutela e controllo è passata tutta l’attività
amministrativa delle Comunità locali, come richiede la riforma
dell’amministrazione del 1755 e del 1756 (“Riforma
al governo della Valsassina”). I primi bilanci disponibili dei Comuni della
Valsassina riguardano l’anno 1773 e sono redatti e sottoscritti dal “Regio Delegato della Valsassina”,
Giorgio Antonio Ferretti, a cui sono
affidate tutte le 27 Comunità della valle. Essi
seguono tutti un medesimo schema e sono denominati come “Inventario, ossia stato attivo e passivo del
Comune”.
Attraverso questi documenti è
possibile un confronto con i bilanci del 1747 al fine di valutare come è
cambiato il peso della tassazione sui Comuni prima e dopo l’introduzione del
Nuovo Catasto e el nuovo sistema tributario a questo collegato. Nel bilancio
del 1773 di Casargo con Codesino e Somadino, si dettagliano nello “stato passivo” le uscite che sono
costituite da: il “Carico Prediale”, cioè la principale tassa, quella fondiaria, per 1.449 £; metà della la tassa sul “personale”pagata da 67 “Teste” a 5,5 l’una (un valore applicato
in tutti i paesi della valle), per 136 £
e l’importo della tassa sulla casa (7,5 £). Nel bilancio non sono presenti le
tasse locali, perché, secondo le nuove regole, dovevano essere pagate utilizzando le rendite
dei Beni Comunali, la metà delle altre tasse e se necessario con sovraimposte.
Sotto la voce di “Spese Diverse Solite” viene indicata un’altra uscita, e per la
Valsassina costituisce una novità, quella relativa ai “Carichi spettanti a Fondi della Comunità”, cioè la nuova tassa,
introdotta dal Catasto Teresiano, per i Beni Comunali, che per Casargo assomma
a 428 £.
Nel 1747, tra Codesino, che presentava
allora un bilancio separato e Casargo con Somadino, la cifra delle imposte
maggiori pagate in quella data dai tre paesi, tra “Diaria” e “Camerale, e
non conteggiando la “Sovraimposta” (una tantum non presente nel 1748-49),
assommava a 2.218 £. Mentre le tasse
pagate nel 1773, sommando le quattro
tasse (“Prediale”, “personale”, la tassa per la case e la
nuova tassa sui Beni Comunali) arrivavano alla somma di 2.020 £ per i tre paesi
insieme, 198 £ in meno rispetto a quanto
pagato nel 1747, una cifra che sarebbe ancora più consistente se si dovesse
aggiornarla con l’inflazione di più di un ventennio. Sempre nel bilancio del
1773, tra le uscite sono indicati anche dettagliatamente
i “Salari annui fissi” per
Cancelliere (funzionario governativo ma a carico dei Comuni), sindaco ed
esattori e le “Spese straordinarie” (alle strade, alle cassine di monti, ecc.).
Nello “stato attivo” sono registrati
solo gli affitti dei pascoli , con scadenza nel 1777 e della durata di nove
anni, quello di Ombrega (482 £) e quello
di Sasso D’Arotto a Domenico Cresserio di Codesino (255 £), per la somma totale
di 737 £ . Tra le entrate figurano anche la metà della tassa “personale” e della tassa sulla casa,
trattenute dal Comune per le proprie spese.
Per quanto riguarda “l’Inventario, ossia
stato attivo e passivo del Comune” di
“Narro con Indovero”, sappiamo che, per il 1773, l’uscita per il ”Carico Prediale” (tassa fondiaria) ammonta
in 770 £; il “personale” calcolato su 79 “Teste”
a 5,5 £ è di 139 £, con 12 £ per le case e la tassa sui “Fondi Comunali” assomma a 206 £.
L’insieme delle due tasse principali pagate nel 1747 dai due comuni (allora
separati), “Diaria” e “Camerale”, e non conteggiando la “Sovraimposta” (una tantum non presente nel 1748-49) arrivava a 1.424 £. Nel 1773,
ventisei anni dopo, il carico tributario di “Narro con Indovero” è di 1.127 £, cioè 297 £ in meno rispetto al
1747, senza contare, anche in questo caso, l’incremento dovuto all’inflazione
tra le due date. Confrontando le due piccole realtà locali, Casargo con
Codesino e Somadino e Narro con Indovero, si può notare come la diminuzione della
tassazione è maggiore laddove le Comunità hanno condizioni economiche più
precarie.
Nel microcosmo valsassinese, anche con la nuova tassazione dei Beni Comunali
introdotta dal Catasto Teresiano, per scongiurare la quale tanto si era
prodigato il Sindaco della valle Michelangelo Manzoni, queste cifre dimostrano come il nuovo sistema
di esazione non aveva come obiettivo un aumento del peso tributario, come tutti
temevano e si aspettavano, ma al contrario intendeva introdurre un alleggerimento del carico fiscale
per tutti i contribuenti e un maggiore equilibrio nella distribuzione dei carichi
a beneficio di tutto lo Stato.
I
Beni Comunali
Nella stessa cartella dove si trovano i 27
bilanci dei Comuni della Valsassina del 1773, si trova anche una Tavola
riassuntiva dedicata ai Beni comunali della valle, datata 1775.
Questa tabella permette di capire come veniva definito” l’importo dei carichi sopra l’estimo dei fondi comunali”per ogni
comune. Infatti, nella colonna seguente a quella in cui sono registrati gli
importi, viene elencato per ogni comune “l’annuo
reddito dei fondi comunali per l’uso
dei pascoli e dei boschi e il prodotto dei tagli dei boschi maturi, lasciando
chiaramente capire che l’importo della tassa sui Beni Comunali, introdotta col
Nuovo Catasto, era stimata sì in relazione all’estensione e alla composizione
dei Beni, ma anche e soprattutto in proporzione ai redditi prodotti dai Beni
stessi, attraverso gli affitti dei pascoli e i tagli dei boschi. Questo spiega
il valore più alto della tassa per i Beni Comunali pagata da Casargo, rispetto per
esempio a Narro, perché il primo aveva Beni più estesi ma poteva contare anche
su due affitti di pascoli e continui
tagli di boschi, per la vicinanza dell’area metallurgica di Premana. Questo
aspetto è ancora più evidente se si analizza il bilancio di Premana, la cui
tassa per i Beni Comunali arriva a 918 £. Come si può osservare nello “stato attivo” del suo bilancio,
Premana incassa dagli affitti dei pascoli una cifra elevata, 2.009 £. Nel
caso in cui non ci siano ricavi dai Beni Comunali, la tassa è moderata. Per
esempio, Margno, Cortenova e Bindo che, in quell’anno, non hanno redditi da
pascoli e boschi pagano l’uno 84 £,
l’altro 11 £ e Bindo 27 £. Sempre in questa tabella è possibile conoscere
l’importo generale della tassazione sui Beni comunali per l’intera Valsassina che è di 5.573 £, oltre il 20% del reddito di
tutti i Beni Comunali di tutta la valle che è di 26.872 £.
La tassazione dei Beni Comunali mette in
luce l’importanza che questi hanno nell'economia del territorio di montagna, in
un ambiente caratterizzato da cronica scarsità di risorse. Questi beni, molto
estesi in montagna tanto da costituire il 60-70% del territorio comunale,
sopravvivevano in minima parte, all’epoca del Catasto, nella zona collinare ( il 9% del territorio)
ed erano già completamente scomparsi in pianura (meno del 1%) .
Essi garantiscono alla popolazione di paesi come Casargo, Indovero e Narro dei
diritti fondamentali legati spesso alla
stessa sopravvivenza, quali quello del pascolo che consentiva l’allevamento
anche di pochi capi; la raccolta della legna per riscaldamento e per uso
edilizio; la raccolta del fieno per gli animali; la raccolta di castagne, che
hanno un'importanza fondamentale nella alimentazione della gente di montagna.
"I comunisti", come sono
definiti nei testi del Catasto, possono contare su queste risorse comuni
soprattutto a Indovero e Narro, collocati sul ripido versante della montagna e
dove la proprietà risulta più parcellizzata e meno produttiva. Nell'economia a
volte di pura sussistenza, soprattutto in alta Valsassina, i Beni Comunali
sono, "un vero pilastro
dell'economia comunitaria", un "ammortizzatore sociale per le classi più povere" e
costituivano la vera "ricchezza
nascosta" delle Comunità, importante soprattutto per la sopravvivenza
delle famiglie più povere.
In questo periodo, anche per la loro tassazione, si assiste ad una maggiore
pressione da parte delle Comunità su questi Beni che prende le forme di una
sempre più estesa espansione dei pascoli. Sono del resto le stesse Comunità, attraverso
le élites dominanti che le governano, ad essere interessate all’espansione dei
pascoli che, in Valsassina, ammontavano a
ben 44.212 pertiche. Questa espansione è realizzata anche con la selvaggia
deforestazione, spesso orchestrata dai maggiori imprenditori del ferro, che
disponevano di una libertà piena nell’avvantaggiarsi delle risorse comunali. A
questo si aggiungeva la piaga dei tagli
abusivi, quasi sempre destinati alla produzione di carbone da rivendere agli
stessi proprietari di forni, illecite usurpazioni e incendi dolosi. L’aumento dell’estensione
dei pascoli derivava anche da un crescente numero dei capi di bestiame che li
occupavano nei mesi estivi. Nel 1782, da un'indagine commissionata ad Alberto Besozzi dall’amministrazione
austriaca, sui pascoli affittati erano presenti 1.323 bovini e 1.080 pecore,
mentre in quelli comuni 5.800 bovini, 4.000 pecore e 6.500 capre. Per tutte le
Comunità i proventi ricavati dall’affitto stagionale costituivano un’entrata
certa e sicura e nel, 1782, il ricavo di tutti gli affitti della valle valeva
la cifra di 12.685 £.
A favorire l’allargamento dei pascoli,
contribuiva anche la forte richiesta dei bergamini,
pastori-imprenditori, in gran parte
valsassinesi, che transumavano con gli
animali sulle montagne della Valsassina dalla pianura all’inizio dell’estate
per farvi ritorno a settembre. Al contrario degli affitti dei pascoli , con gli
affitti dei boschi da taglio, a cadenza trentennale e che potevano anche durare
decine di anni a vantaggio degli
affittuari, le Comunità introitavano cifre irrisorie, almeno fino a quando l’amministrazione
austriaca impose un “Regolamento per i
boschi comunali della Valsassina” ,
che normava rigidamente questo importante settore dei Beni Comunali, spesso oggetto
di usurpazioni e scriteriati utilizzi. E’per questa ragione, grazie alle tabelle elaborate dall’allora Cancelliere, Vincenzo Bellati, che
sappiamo, come stabiliva il “Regolamento”,
a quanto ammontava la “Quantità dei
boschi occorrenti per il giornale consumo de poveri della Comunità” (400
pertiche, quasi la metà di tutti i boschi) e quale era il “totale ricavo dell’ultimo taglio dei boschi” del Comune di Casargo
per l’anno 1782: 6.521 £. In un’altra tabella allegata, è possibile conoscere anche la “conversione del ricavo dell’ultimo taglio de boschi“, cioè come il
Comune aveva speso questa somma incassata in quell’anno: 685 £ per la”ristaurazione del tetto e del campanile
della parrochiale”; 59 £ per la “ristaurazione
delle cassine dei monti”; 5.527 £ “per scarico
sopra imposta comunale e tassa personale”
e le altre 250 £ per non precisate “tante
non ancora esatte dal compratore”.
Deficit cerealicolo ed emigrazione
La presenza di grandi proprietà comunali, notevolmente ridotte con gli affitti
a privati, già molto prima dell’introduzione del Nuovo Catasto, come nel
caso di Casargo, non potevano di certo però sanare il problema cruciale nelle zone di montagna e cioè quello
dell’autosufficienza alimentare e in primo luogo quello della produzione di
cereali. La povertà strutturale, data dalla scarsità di terreno coltivabile di
questi territori di montagna, pone alle popolazione dei limiti insormontabili,
derivati dalla stessa orografia ma aggravati dalla estrema frammentazione della
proprietà, conseguenza del sistema ereditario
e dalle basse rese dei raccolti, spesso minacciati da eventi climatici
sfavorevoli.
Per i periti del Catasto, a Casargo,
Narro e Indovero, la terra migliore è classificata non "aratorio" ma "zapatorio", cioè coltivata a mano
come un orto senza l'uso dell'aratro; essa è scarsa e concentrata nelle mani di
pochissimi proprietari che la coltivano senza aiuti esterni. A Casargo il
principale proprietario, Carlo Tenca, ne possiede meno di cento pertiche, ma la
stragrande maggioranza ne ha pochissima. Sappiamo che si coltiva soprattutto
segale e grani "minuti",
cioè quelli a semina primaverile come il "formentone", cioè il grano saraceno. Le rese sono molto basse
e il dato è anche confermato in una descrizione contenuta in un "Sommario del comune di Narro" allegato
al censimento degli immobili da cui
sappiamo che " il personale
sovrabonda il bisogno del lavorerio dei terreni" e che "si seminano ogni anno in tutto 25 stare di
segale e dodici stare di minuti. Si raccoglieranno in tutto stare 70 di segale
e stare 48 di minuti, compresa la semenza" .
Questo vuol dire che per un seme di segale, tolta la semente, se ne raccolgono
solo due e per il grano saraceno tre.
E’ questa agricoltura povera e marginale che costringe buona parte degli uomini
ad emigrare, stagionalmente o per lunghi periodi, e col ricavo del proprio
lavoro sostentare le famiglie. La loro assenza, però, lasciava tutto il massacrante
lavoro agro-pastorale sulle spalle delle donne, su cui gravava anche la cura
dei bambini e anziani oltre all’accudimento degli animali (mucche, capre e pecore),
vitali per il sostentamento dei nuclei famigliari. E’per questo che la
popolazione della valle è composta da una grande maggioranza di donne.
Nel 1773, in tutti i paesi della Valsassina le donne sono la maggioranza
tranne a Pasturo, il paese a maggiore vocazione agricola, dove sono il 49%.
Sono però il 52% della popolazione a Barzio (600 abitanti) contro i 28% degli
uomini; stessa percentuale a Introbio, dove gli uomini sono solo al 19%. A Primaluna le donne sono il 56
% della popolazione come a Cortenova. A Casargo su 305 abitanti il 55 % sono donne e gli uomini 79, il 25%; a
Narro e Indovero le donne sono 197, il 57% e con solo 88 maschi adulti, il
25,5%; a Premana la popolazione femminile
arriva quasi al 60% della popolazione e gli uomini sono 142, solo il 21% della popolazione
totale . Donne, bambini e qualche anziano formano la parte preponderante di tutte
le Comunità della valle: sono l’80%
della popolazione di Introbio; il 78% di quella di Premana; il 74% di quella di
Narro e Indovero; il 73 % quella di Casargo.
Come avviene in tutto l’arco alpino, nella popolazione della Valsassina, i
grandi ‘assenti’ sono gli uomini. Se si ipotizza che in una Comunità il numero
degli uomini generalmente eguagli il numero delle donne sul totale della
popolazione, esclusi vecchi e bambini, a Introbio mancano 101 uomini adulti per
arrivare alla parità, il 17% della popolazione totale; a Barzio mancano 74
uomini per eguagliare il numero delle donne, 12% della popolazione totale; a
Cortenova mancano 65 uomini, il 16% della popolazione; a Premana mancano ben
124 uomini, il 19%; a Casargo mancano 45 uomini, 15% della popolazione; a Narro
con Indovero mancano 56 uomini il 16%
della popolazione di entrambi i paesi.
Se la popolazione della Valsassina, nell’arco degli 1751-1773, era stimata superiore alle 10.000
unità
, l’emigrazione, calcolando una media del 15 % di ‘assenti’ sulla popolazione
totale, potrebbe attestarsi ben oltre le 1.500 unità e non dovrebbe essere
percentualmente molto diversa da quella calcolata da Raul Merzario per l’emigrazione
nella montagna comasca, che interessava almeno un quinto della popolazione.
Meno terra coltivabile è presente nella Comunità e più mancano uomini, che
devono trovare altrove la fonte di sostentamento per la propria famiglia. L’emigrazione
è un'antica piaga della Valsassina, come del
resto nell’intero arco alpino. Senza l’emigrazione la sussistenza di una buona
parte della popolazione dei paesi di montagna come Casargo, Narro e
Indovero (ma lo stesso discorso vale anche per tutte le Comunità della
Valsassina) non sarebbe possibile. Solo
gli uomini emigrati sono in grado di “monetizzare l’economia famigliare” ,
come afferma lo storico Raul Merzario, facendo arrivare alle famiglie il denaro necessario per
i tributi ma, soprattutto, per procurarsi altri cereali indispensabili per
vivere, quando quelli prodotti con i magri raccolti su terreni di montagna
finiscono dopo pochi mesi. La popolazione poteva contare per sopravvivere in
montagna sulle risorse dei Beni Comuni, con i vantaggi che questi comportavano,
ma questo certamente non bastava a colmare il deficit cerealicolo, tipico di
questa area. Occorreva il grano (o il meno costoso mais) proveniente dalla
pianura e per questo erano necessarie le rimesse di chi lavorava altrove. Occorrevano
cereali per sopravvivere e, con una dieta un po’ più varia, poter scampare
anche alla diffusione di malattie tremende come la pellagra, che era già
presente alla fine del secolo XVIII e imperverserà nel secolo successivo, in
particolare in quelle aree (collina e la pianura) da cui provenivano proprio quei cereali
acquistati dalle popolazione di montagna. La sopravvivenza di chi rimaneva era
quindi dipendente dal particolare rapporto di scambio che legava la montagna e
la pianura, dove l’una forniva grani e l’altra, come per esempio la Valsassina,
forniva ferro, legna, prodotti caseari ma anche e soprattutto uomini, come del
resto tutti i distretti di montagna che da sempre sono appunto “una
fabbrica di uomini”, per citare un saggio di Raul Merzario.
Se sull’entità numerica del flusso migratorio della Valsassina sono possibili
solo ipotesi, non è facile nemmeno individuare le direzioni di questa costante ‘emorragia’ di
uomini. Solo il caso di Premana e la sua
peculiare emigrazione di fabbri verso Venezia, è stata più volte indagata ed è
per questo che si sa che non fu soltanto premanese, ma che interessò anche
altre Comunità valsassinesi. Di tutti coloro che lavoravano a Venezia “52 fabbri provenivano da altre comunità
della squadra di Chignolo”, la stessa della Val Casargo e “31 dalla squadra dei Monti”, a cui appartenevano Narro e
Indovero. La
confinante Repubblica Veneta doveva essere destinazione privilegiata del flusso
migratorio valsassinese, perché la
Serenissima che non solo favoriva il trasferimento di manodopera nel proprio
territorio ma cercava di trattenere coloro che vi si trasferivano. E certamente
tra le mete non c’era solo la capitale, ma anche i distretti metallurgici del
Bergamasco e del Bresciano.
Per Casargo, in particolare, si ha notizia solo di pochi casi che testimoniano questo fenomeno. L’uno riguarda il caso della costruzione
del forte di Fuentes e del castello e
delle fortificazioni di Lecco, ricordato dall’Arrigoni ,
dove sono presenti maestranze provenienti dalla Valsassina e dalla val Casargo
in particolare.
Un altro caso riguarda delle persone emigrate in Piemonte. Sappiamo che la
chiesa di San Bernardino, nel 1658,
viene ingrandita, anche con le rimesse di alcuni emigrati di Casargo nel
torinese. Sopra il portale in pietra, è ancora presente una lapide del 1658,
che ricorda quei lavori e il
finanziatore. Questi Manzolini di
Casargo fecero anche costruire un altare nella navata destra e donarono un
dipinto che è quello di maggior pregio della chiesa, una pala ad olio su tela
del Seicento che rappresenta La Madonna tra angeli e Ss Francesco, Carlo,
Simone Stock e Bernardino da Siena, di area piemontese.
Spesso il duplicato del pagamento dell’imposta personale per chi viveva altrove
( questo accadeva anche per i bergamini, in gran parte valsassinesi, che si
trasferivano all’interno dello Stato) o il pagamento della tassa sulla casa non
più abitata, portano alla luce in modo occasionale i casi di emigrazione, come
nei casi di un certo Adamolo e
Chiodi di Narro, che in un appunto
venivano dichiarati come abitanti da tempo a Pavia.
Il problema dell’emigrazione
impensieriva l’amministrazione austriaca per il pericolo dello spopolamento che
comportava e cercò di affrontarlo, puntando alla diminuzione del carico fiscale
di chi viveva in queste aree. In una relazione del 1789, presa in esame dalla
Dattero , un
funzionario dell’amministrazione austriaca per la provincia di Como, Giuseppe
Pellegrini, esaminando le particolari condizioni dell’area alpina, esprime un
punto di vista diverso sul fenomeno, evidenziando, in controtendenza con
l’opinione più diffusa, che l’emigrazione nelle zone di montagna è “di genere non dannoso ma utile allo Stato”,
perché ”nella massima parte non è vera
emigrazione”, cioè distacco definitivo dalla comunità d’origine. Quelli che
lasciano queste zone per lavorare in “Piemonte,
nel Bresciano, in Venezia e in alcune parti della Toscana” ritornano al
proprio paese di nascita per occuparsi delle loro proprietà e acquistarne delle
altre, perché “continue sono le
contrattazioni di fondi”. Considerando, molto pragmaticamente, che “quello che è riferibile alla natura del
suolo non può sicuramente correggersi”, nell’ analisi sottolinea che ”le somme
cospicue di denaro di questi emigranti” costituiscono “un vantaggio pubblico per lo Stato”e quindi il Pellegrini suggerisce alle autorità centrali che, per tenere
sotto controllo il fenomeno migratorio, occorra proseguire sulla strada nella
diminuzione delle imposte locali.
Quello che appare probabile è che la emigrazione valsassinese, nelle sua
complessa varietà, sia perlopiù temporanea o stagionale che definitiva e sia
non di poveri diseredati al limite della pura sussistenza, ma formata anche, e
forse soprattutto, “di persone esperte
nel loro mestiere che vanno ad espletarlo dove più occorre e dove è necessaria
la loro abilità” .
Quindi un genere di emigrazione in grado di generare non solo flussi costanti
di denaro per poter garantire la sopravvivenza delle famiglie stabili, ma anche
per piccoli investimenti sul territorio con il quale si mantenevano costanti
rapporti.
Conclusioni
La pubblicazione dei risultati
globali del Catasto Teresiano mettono in evidenza come questo complesso
strumento tributario sia riuscito, all’interno dello Stato, a sanare le
profonde diseguaglianze tra i vari territori e ad equilibrare in modo più equo
il carico fiscale tra le classi sociali. Mettendo a confronto i dati del
complesso totale delle imposte nel triennio 1747-48-49 con quelle del 1763, si
nota in primo luogo che il gettito
complessivo delle tre imposte (fondiaria, personale e mercimoniale) era
diminuito del 16,5 %, ma che soprattutto era cambiata la distribuzione
dell’onere: “Salta agli occhi il forte
aumento dell’aliquota di Milano e provincia (da poco più di due quinti a quasi
la metà del totale) , a beneficio di Cremona e in minor misura di Como e Lodi:
una correzione che giustifica le secolari accuse rivolte dalle città minori
alla dominante” .
Altro dato importante è che la percentuale complessiva delle due tasse non
fondiarie, e cioè quella “personale”
(uomini da 14 a 60 anni) e “mercimoniale”
(artigianato e commercio), che passò dal “19,3% al 10,5% del carico totale”.
In particolare la tassa “personale”
diminuì di più del 50% (prima arrivava in alcuni casi anche a 60 £ per uomo
adulto )
e la “mercimoniale” del 43%, a
beneficio di tutti gli abitanti e di artigiani e commercianti, realizzando un
riequilibrio del carico fiscale anche tra i vari ceti sociali.
Per quanto riguarda la Valsassina, dai dati riportati in una relazione del 1774 dal Magistrato Fiscale di Milano, si ricava che “in passato con l’esenzione di boschi e pascoli, la valle
contribuiva 33.000 £ per le imposte
dovute allo stato, mentre col nuovo ordinamento ne versava 30.805 £, quindi non
vi era stato alcun aggravio, bensì un alleggerimento del carico imposto”.
Questo “alleggerimento” risulta
confermato anche dal sensibile calo del
carico fiscale evidenziato nel confronto tra i bilanci del 1747 e quelli del
1773 del dopo Catasto, quando i Comuni
potevano contare sulle entrate costituite dalla metà delle tre tasse, quella “personale”, “mercimoniale”,
e delle case di abitazione.
Se il carico tributario della Valsassina a favore dello Stato Centrale di
Milano era diminuito, non sappiamo se le imposte gestite dalle amministrazioni
locali, abbiano seguito nel tempo lo stesso destino. Quello che appare certo è
che il governo austriaco, dopo il 1760, riserva alla Valsassina ancora un
trattamento privilegiato da un punto di vista fiscale, sempre in considerazione
della posizione di confine, per le sue miniere strategiche e per le attenzioni
della vicina Repubblica Veneta. E questo avviene nonostante i generali “disordini” e “irregolarità”
documentati da una commissione d’inchiesta, nel 1768,
in tutte le amministrazioni locali della valle e soprattutto in quella
centrale, con il coinvolgimento anche dello stesso Sindaco Generale, per
esborsi a suo favore senza alcuna documentazione.
La più alta autorità politica della Valsassina, Massimiliano Manzoni, figlio di
Michelangelo da cui aveva ereditato la carica di Sindaco vitalizio, proprio in
quegli anni, forse anche per compensare il peso della tassazione sui Beni Comunali, si lancia in
numerose richieste per nuovi esenzioni in favore della valle, documentate dalla
Dattero
e che trovano sempre una benevola accoglienza da parte del governo asburgico. Nel 1758, si richiede la riduzione della tassa “mercimoniale” e di quella “personale”; nel 1766 l’abolizione della
Tariffa Generale dei Dazi in Valsassina, introdotta un anno prima; 1774 la
cancellazione dei dazi sul vino venduto al minuto, il pane e la carne,
incamerati prima della sua morte dal vecchio feudatario. Tutte queste istanze
ebbero esito positivo ma il costo fu molto elevato. Quella sul ribasso della
tassa del “personale” ammontò a ben 16.500 £. Naturalmente
le spese sostenute vennero ripartite su tutte le Comunità della valle
con un aumento proprio della tassa sul “personale”,
di cui si era ottenuto il dimezzamento con il ricorso. Tutte queste richieste, al
di là dei supposti vantaggi che arrecavano alla
valle, erano in realtà “un elemento
fondamentale per il mantenimento del potere dei Manzoni” e volte a
confermare e a rafforzare il loro ruolo non solo come rappresentanti della
Comunità valsassinese, ma come “
mediatori capaci di contrattare con le
istituzioni centrali e convincerle delle ragioni che militavano in favore della
valle, in primo luogo la sua povertà”.
A partire dal 1782, il clima politico all’interno dello Stato cambia
drasticamente. Il governo austriaco decreta l’abolizione di tutte le esenzioni
concesse in passato e nel 1786, in nome della centralizzazione e dell’uniformità dello stato, volute da
Giuseppe II, erede di Maria Teresa morta nel 1780, venne istituito un nuovo
assetto amministrativo della “Lombardia
austriaca”. L’enorme provincia di Milano fu smembrata e furono create 8
nuove circoscrizioni territoriali. La Valsassina, in posizione eccentrica e
distante dalla capitale, fu aggregata alla neonata provincia di Como, retta da un
Intendente governativo che aveva un forte potere di controllo sulle
amministrazioni locali. L’autonomia della valle e i suoi privilegi stavano per
finire definitivamente, ma anche il potere incontrastato dei Manzoni sulla
Valsassina aveva ormai i giorni contati.